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Lugano, Svizzera, 22 ottobre. 21:55.

 

«Buonasera, signor Henkel», aveva esordito pochi minuti prima Herman Van Buuren. Poi aveva camminato lentamente nella carlinga del Lockheed C-130 e si era fermato di fronte alla telecamera.

Era nato quarantotto anni prima in un paesino nel Sud dell’Olanda. Aveva un fisico asciutto e i capelli biondo cenere pettinati con la riga di lato. Portava una barba appena accennata e due occhiali rotondi da intellettuale che nascondevano piccoli occhi azzurri.

Alcuni lo avevano definito uno scienziato visionario che riceveva le intuizioni da un profondo stato di astrazione mentale. Ma Herman era esattamente l’opposto: una macchina fredda e calcolatrice. Non era mai stato dedito all’azione, tuttavia, negli ultimi tempi, si era dovuto adattare per necessità. Esattamente ciò che gli avevano insegnato i suoi genitori.

Pur non essendo una donna istruita, sua madre Yvon era dotata di un’inventiva prodigiosa e di una grande memoria. Suo padre, invece, era un professore di matematica che faceva della moralità la sua ragione di vita. Il giovane Van Buuren, per sua fortuna, aveva ereditato le doti migliori da entrambi e fin da subito era stato attratto dalla scienza.

Già all’età di cinque anni, dopo aver sfiorato con le dita il pelo del suo gatto, aveva visto formarsi alcune scintille. Quel normale effetto elettrostatico lo aveva incuriosito a tal punto da catapultarlo nello studio dei fenomeni elettrici prima e delle altre scienze poi.

Dopo aver terminato il corso di ingegneria si era dedicato alla fisica e poi alla genetica. All’età di ventinove anni possedeva tre lauree e un dottorato di ricerca che l’aveva portato negli Stati Uniti e successivamente in Cina.

E a distanza di cinque anni dall’inizio del suo ultimo progetto, si trovava a Lugano. Poco prima, si era finto un ispettore di polizia e con l’aiuto di alcuni uomini fidati era entrato nella stanza d’hotel di Stella Rosati. Dopo averla immobilizzata e drogata, l’avevano caricata sull’auto e infine erano arrivati sulla pista dell’aeroporto di Agno.

 

«Cosa volete?», ruggì Andreas Henkel attraverso il monitor. «Stella non c’entra nulla. Lasciatela andare».

Van Buuren si limitò a sorridere. Poi si rivolse a un’infermiera che nel frattempo l’aveva raggiunto e le fece cenno di togliere il cappuccio alla Rosati. La donna eseguì e mostrò il viso di Stella attraverso l’obiettivo.

«Cosa le avete fatto?», sbraitò ancora l’agente dell’SSV, ammanettato a una sedia a diversi chilometri di distanza. La sua fidanzata era immobile, gli occhi sgranati e un’espressione di terrore. Non sembrava in grado di parlare né di muoversi.

L’olandese non gli rispose. Si spostò invece in direzione di un tavolo addossato alla carlinga curva del velivolo e tolse il lenzuolo verde che lo copriva. Sotto c’erano alcuni apparati elettronici, bisturi e strumenti di sala operatoria.

«Signor Henkel, per adesso Stella sta bene…», esordì lo scienziato, mentre prendeva in mano una strana pistola. «Ma quando dice che non c’entra nulla si sbaglia».

Henkel deglutì e fissò Van Buuren attraverso lo schermo.

«Voi siete qui per un motivo e purtroppo mi servite entrambi». L’olandese si avvicinò lentamente alla donna.

«Cosa volete?», ringhiò di nuovo Andreas.

«Vede questo dispositivo?», sospirò lo scienziato, agitando l’arma che teneva in mano. Ricordava vagamente una pistola ad acqua ma sulla sommità era posizionato una specie di stantuffo che conteneva un liquido azzurro. Sopra c’era un numero: il 45. «È una particolare siringa temporizzata: un dispositivo che introduce nel corpo dei pazienti farmaci che richiedono una lenta infusione».

«Che cosa volete?». Henkel strattonò le manette e cercò di alzarsi. Qualcuno lo trattenne sulla sedia. «Mi state minacciando, giusto? Cosa volete che faccia per lasciarla andare?».

Van Buuren sorrise di nuovo e proseguì, fingendo di non aver udito le parole dell’agente dell’SSV. «Come vede, il dispositivo è composto da due parti, la siringa e l’infusore automatico». Lo scienziato lo sollevò a favore di telecamera.

Nel frattempo la donna si era avvicinata all’avambraccio di Stella e l’aveva cosparso di disinfettante.

«Proceda!», sussurrò lo scienziato all’infermiera. Poi si voltò verso l’obiettivo e con un ghigno serafico spiegò: «La sostanza che stiamo per iniettare alla sua fidanzata è una particolare proteina. Ci siamo presi la libertà di inserirvi una nucleasi di restrizione, un enzima che andrà a caccia della sequenza terminale del filamento di DNA».

Mentre Van Buuren parlava, la donna applicò un piccolo catetere all’avambraccio di Stella e collegò la siringa al dispositivo elettronico. Lei non mosse un muscolo, come in trance, e il liquido cominciò a scorrere lentamente.

 

Ad alcuni chilometri di distanza Frédéric, il Rosso che aveva seguito Henkel, aprì una ventiquattrore. All’interno c’era uno strano orologio di gomma, aveva un cinturino nero e un grosso display IPS, in cui si vedevano diagrammi e numeri.

Gli energumeni che avevano scortato l’agente dell’SSV erano tutti immobili accanto alla sedia a cui Henkel era ammanettato. L’unico a essersi spostato era il tizio calvo, quello che aveva parlato durante il tragitto in macchina.

«Sappiamo per chi lavora…», aveva detto pochi minuti prima. E ciò aveva convinto Andreas che in quella vicenda c’entrasse il Vaticano. Ma allora, Stella?

«Va bene», disse il pelato, riponendo il cellulare e fissando lo schermo. «È sincronizzato. Attendo l’ok!».

E in quel momento, nella carlinga dell’aereo, il liquido azzurro cominciò a scorrere nel tubicino collegato al catetere della Rosati.

«Ha settantadue ore da adesso». Frédéric si avvicinò a Henkel e gli sistemò l’orologio al polso.

Una lieve fitta di dolore, quasi come una puntura d’insetto, fece abbassare lo sguardo all’agente del Vaticano. Sembrava che il dispositivo avesse introdotto qualcosa sotto la pelle. Lo osservò meglio: sul display, accanto a simboli che non riuscì a riconoscere, si vedeva un conto alla rovescia: indicava 71:59:56 e scorreva all’indietro.

«Settantadue ore per cosa?», inveì rabbioso Andreas. «Cosa le avete fatto?»

«Perdoni l’attesa». Van Buuren, si strofinò le mani e tornò a guardare l’agente dell’SSV dallo schermo. «Questa fase era la più complessa e volevo essere certo che la signora avesse tutte le attenzioni che merita».

«Cosa volete? Cosa c’entra il Vaticano?»

«Bene. Vedo che almeno una parte del problema le è perfettamente chiara: lei e la sua fidanzata siete qui perché avete ruoli importanti nelle istituzioni della Santa Sede».

«Stella non ha alcun potere in Vaticano». Henkel si agitò sulla sedia. Le manette tintinnarono. «State sbagliando persona!».

«Non credo, signor Henkel. Ormai ha capito benissimo perché lei si trova lì e Stella invece qui. Ci aspettavamo un po’ di resistenze da parte sua: la signora Rosati è la nostra garanzia che d’ora in avanti avrà ben chiaro come stanno le cose».

«E come stanno?»

«La situazione è molto semplice: la sua fidanzata morirà», proseguì Van Buuren, con sguardo sfuggente. «Nell’arco di poche ore la sua temperatura corporea aumenterà. Avrà saltuari svenimenti e probabilmente qualche emorragia. Con ogni probabilità, si diffonderanno su tutto il corpo sfoghi ed eruzioni cutanee. Entro settantadue ore sarà morta».

Henkel deglutì. Entro settantadue ore sarà morta.

«Però c’è una buona notizia…», sorrise l’olandese, parlando in tono piatto. «La nostra proteina completerà il suo lavoro solo se sarà somministrata per intero: se lei ci fornirà ciò che noi vogliamo, interromperemo la somministrazione prima della linea di non ritorno, la deadline».

L’agente del Servizio Segreto Vaticano non riuscì a trattenere un’espressione di disprezzo. Il suo pomo d’Adamo cominciò a muoversi su e giù come una molla. «Cosa volete che faccia?».