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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. 00:30.
-00:00:00 alla deadline.
Tutto avrebbe dovuto concludersi in novanta secondi.
Mentre Gutierrez saliva a due a due i gradini della scala interna, se lo ripeté più volte, scuotendo la testa. Ma ormai era tardi, non poteva farci nulla.
Si trovavano lungo la scala est del Building 1, un cubo di vetro e acciaio di sei piani. Salivano a gruppi di tre, avanzando a colpi di esplosivo. Avevano fatto saltare tutti gli ingressi blindati, in attesa che il cane segugio individuasse “Uruk”, il suo obiettivo. E non era ancora successo.
Sul terzo pianerottolo, però, Enya si fermò. Annusò per qualche istante la porta di vetro, indugiò, guardando più volte il suo conduttore e tirò il guinzaglio.
«Di qua».
I Seals si ritrovarono a camminare al buio in fila indiana in un androne con finestre di cristallo. In basso, oltre il vetro, si vedevano altri edifici della base, alcuni hangar tutti uguali e sullo sfondo il riflesso della grande cupola. I manifestanti erano lì, e di tanto in tanto si udivano scariche di mitra.
«Tíngzhǐ», inveì in cinese una voce dall’altra parte del corridoio. La guardia non riusciva a vedere gli americani, fermi al di fuori del cono di luce. «Tíngzhǐ. Zhǎo chū zìjǐ», ripeté. «Fermi. Identificatevi».
Il labrador strattonò proprio in quella direzione e uno dei Navy Seals, che a differenza del cinese era dotato di occhiali a infrarossi, aprì il fuoco. Due colpi ravvicinati di M16 e poi un terzo. Tutti a segno.
«Libero».
Hannibal Gutierrez si staccò dal gruppo e fece strada, seguendo il cane. Raggiunte le tre guardie che avevano neutralizzato, sorrise. «Non vi sembra strano che in tutto l’edifico abbiamo trovato resistenza solo davanti a questa porta?». Picchiettò con le nocchie sullo stipite metallico e lanciò un ghigno ai suoi uomini. «C4, presto!».
L’operazione durò solo pochi secondi. L’esperto di esplosivi piazzò piccole cariche sulla serratura e sulle cerniere e subito dopo le fece brillare.
Appena il fumo si fu diradato e i Navy Seals furono entrati, Gutierrez ebbe la conferma di aver raggiunto l’obiettivo: «In nome di Dio e della nazione», ruggì fiero, alla radio. «Uruk, Uruk, Uruk!».
Nello stesso istante, all’interno dell’hangar 4, Herman Van Buuren stava armeggiando con la flebo della cavia 45.
Prima di poterla staccare dalla siringa temporizzata, che ormai aveva terminato di somministrarle la nucleasi, doveva farle un’iniezione di tranquillante. Gli ordini erano di prendere Stella e di portarla al terminal, ma per farlo avrebbe dovuto sedarla. Per quella ragione le infilzò un ago nel braccio e le sorrise.
«Fai la brava», sussurrò beffardo, attraverso gli occhiali. «C’è un piccolo cambio di programma».
Trascorsero alcuni istanti in cui lei sembrò non aver compreso. Roteò le iridi, come se per la prima volta si rendesse conto di ciò che stava accadendo.
Improvvisamente la radio di Herman gracchiò nell’auricolare.
«Dottore, mi sente?». La voce di Henry Lee era allarmata. «Ho delle novità».
«Ti ascolto», rispose lui, portandosi la mano all’orecchio.
«La direttrice è stata rallentata da alcuni “ostili”», aggiunse Lee. «Ma dovete fare in fretta».
«Perché?», mormorò, un filo di voce per non farsi sentire da Stella. Poi si spostò di un passo.
«Sembra che due caccia iraniani siano in volo verso la base», disse brusco il capo della sicurezza. «Saranno qui in quindici minuti».
«Quindici?», ripeté rabbioso. Sembrava che tutto, quella sera, stesse andando storto. «Non è possibile…».
Non fece in tempo a concludere la frase che la cavia, liberatasi dei legacci che la immobilizzavano al piano metallico, si mosse di scatto.
D’istinto, Van Buuren provò a proteggersi con l’avambraccio. La siringa gli sfuggì di mano. E in quel momento fu pervaso da un dolore mai provato prima: sentì un bruciore lancinante e subito dopo si ritrovò con qualcosa di appuntito nell’occhio. Il sangue caldo cominciò a schizzare ovunque.
Xiaochen fece appena in tempo a scorgere la scena. Era nella parte buia dell’hangar e stava scendendo velocemente la scala d’emergenza. Si precipitò nel centro del locale, giusto in tempo per vedere Stella Rosati accanto al tavolo con le mani insanguinate: aveva conficcato un bisturi nell’occhio di Van Buuren.
«Brutta puttana», le urlò lui, le mani strette al viso. Il sangue sgorgava copioso e l’uomo ondeggiava con il capo avanti e indietro.
La ragazza barcollò a sua volta, faticando a rimanere in piedi, e si appoggiò alla struttura metallica senza voltarsi. Nella confusione del momento sembrava non aver notato la cinese.
Xiaochen, muovendosi con la grazia di un felino, si spostò di soppiatto. Raccolse la siringa sfuggita allo scienziato e si avvicinò a lei da dietro. Ma riuscì a fare solo due passi, poi dalla porta principale comparve un’ombra.
«Ferma o sparo!». Era la voce di Andreas Henkel. In qualche modo doveva essere riuscito a liberarsi.
Non obbedì, e anzi si precipitò su Stella, ficcandole la siringa nel collo. Non fece in tempo a premere lo stantuffo che un colpo di fucile la costrinse a indietreggiare. Il proiettile rimbalzò su qualcosa di metallico, echeggiando lontano. Ebbe però l’effetto di farla incespicare sulla valigetta portata da Van Buuren, che si aprì riversando il proprio contenuto per terra.
Stella non comprese cosa stava accadendo, improvvisamente un dolore lancinante le trapassò la schiena. Le sue gote divennero calde e un rivolo di sudore le attraversò la fronte. Subito dopo svenne.
«Cosa le avete dato?», la sferzò Henkel, correndo verso Stella e provando a sorreggerla.
«Nulla che non possa essere neutralizzato dalla giusta sostanza…», ghignò lei, che come un granchio stava strisciando all’indietro. A un certo punto si alzò in piedi e cominciò a raccattare le provette e i frammenti di papiro caduti sul pavimento. «Devi iniettarle il contenuto della siringa gialla», aggiunse.
Henkel verificò il tavolino metallico dal quale Stella aveva afferrato il bisturi. In effetti, oltre a una serie di strumenti di cui poteva solo immaginare l’utilizzo, c’era un’unica grossa siringa, preconfezionata e con la scritta “adrenalina” bene in vista.
«Devi farlo subito…», aggiunse.
L’agente dell’SSV strizzò gli occhi nella penombra e la graffiò con lo sguardo. Forse avrebbe potuto spararle, per occuparsi di Stella subito dopo. Però non lo fece…
Poggiò il fucile per terra e, mentre la cinese si allontanava stringendo a sé la valigetta richiusa in fretta e furia, afferrò la siringa.