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Atene. Pochi istanti prima.
Di fronte alla cattedrale, imbacuccata nel ponteggio di un restauro, il Toro era immobile, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni.
Piazza Mitropoleos era battuta da un vento freddo e insistente e a quell’ora c’era poca gente. Verso la statua dedicata all’arcivescovo Damaskinos Papandreou, si vedeva una bambina che giocava a nascondino con i genitori. Poco lontano, una mamma spingeva un passeggino e nei pressi della cappella di Sant’Eleftherios una anziana si faceva il segno della croce.
Il killer dei Cavalieri di Malta sbuffò. Lo scienziato greco era il suo ultimo obiettivo e finalmente, a lavoro compiuto, avrebbe potuto godersi il meritato riposo. In quel momento si sentiva come un maratoneta in vista del traguardo: sapeva che una volta arrivato sarebbe crollato a terra senza forze.
A differenza di quanto gli era accaduto durante tutta quella missione, qualcosa in lui stava vacillando. Certo, avrebbe portato a termine il suo compito, come promesso. Tuttavia non era più convinto che quei metodi fossero realmente ciò che Dio desiderava. Dubbi simili avevano cominciato a insinuarsi nella sua mente cinque anni prima e a seguito di quelli era iniziata la sua conversione. Gli eventi, poi, lo avevano costretto a tornare a uccidere e adesso si trovava in quella piazza con un fucile a pompa nascosto sotto l’impermeabile.
“Un ultimo sforzo”, si disse, mentre cominciava a muoversi in direzione del Piazza Duomo, al di là della strada.
Trovare Yanis Simonides era stato relativamente semplice. L’uomo non era tornato a casa ma, ingenuamente, aveva continuato a utilizzare il cellulare come se nulla fosse. Era stato sufficiente triangolare il segnale per avere delle coordinate abbastanza precise.
Arrivato sul marciapiede, oltre alcuni scooter parcheggiati, lo vide. Purtroppo non era solo…
“Chi sa deve morire”, si ripeté. Caricò il fucile e fece fuoco verso la vetrata.
Mentre le urla degli avventori e il rumore di stoviglie rotte si impadroniva del locale, Henkel scattò in piedi.
La vetrata di fronte a lui, quella affacciata sulla strada, era andata in frantumi e qualcuno aveva rovesciato i tavolini. In strada si vedeva gente terrorizzata che correva in ogni direzione.
Viola, d’istinto, si abbassò sotto le panche e trascinò con sé Elisabeth. Simonides invece rimase fermo, incapace di muovere un solo muscolo.
In quell’istante un nuovo sparo rimbombò in strada, seguito dallo spostamento d’aria di una seconda vetrata in frantumi. Alte grida si sovrapposero alle precedenti.
Henkel si voltò verso il greco. Era a due passi da lui, ma se ne stava ancora lì, seduto al tavolino con la forchetta in mano e la bocca spalancata. Dalla sua posizione gli parve che non fosse stato colpito, ma in caso di un nuovo sparo non avrebbe avuto scampo.
«Presto, mi segua», gli urlò, mentre cercava di guadagnare una posizione più sicura. Si buttò con tutto il suo peso sul bancone del bar per scavalcarlo e trascinò per terra una fila di bottiglie. Ma il greco non si mosse.
Viola, intanto, strisciò al suolo come un granchio. Procedette all’indietro fino a una vetrata colorata, all’interno del locale. Era una rientranza, ricavata tra due colonne. Davanti a lei c’era un piccolo server IBM con due dischi in ride da tre pollici e mezzo. Sopra, una fila di monitor a circuito chiuso. Nei primi si vedeva la strada, con il Toro a gambe divaricate e il fucile in mano. Negli altri, l’interno del bar da più angolazioni. Sull’ultimo, scorse Elisabeth che carponi si stava dirigendo lì.
«È il Toro», le sussurrò, mentre con ansia faceva danzare lo sguardo tra gli schermi.
E in quel momento arrivò il terzo sparo. Questa volta fu esploso da pochi metri e il proiettile tranciò letteralmente via la testa del genetista. Uno spruzzo di sangue color amaranto schizzò sul pavimento e l’uomo fu sbalzato all’indietro.
Il Toro, con le gambe divaricate e il fucile fumante tra le mani, era fermo nel centro della strada. Incurante della confusione che lo circondava, teneva lo sguardo fisso sul grassone.
«Missione compiuta!», mormorò, come se si fosse tolto un peso che lo affliggeva.
Poi rivolse lo sguardo sul bancone in teak. La vetrata dietro i superalcolici era ancora intatta e da lì riusciva a intravedere il riflesso di Henkel, appoggiato a un’anta di metallo.
Fece un altro passo e caricò l’arma, in attesa di avere la visuale di tiro libera.
E non dovette attendere molto. L’agente sbucò proprio in quell’istante. Si tuffò oltre alcuni tavolini rovesciati e strisciò in direzione delle due ragazze. Ma la fortuna però non sembrò assisterlo: mentre l’agente dell’SSV raggiungeva l’antro in cui si era rifugiata la mora, il vano di cristallo danneggiato in precedenza collassò su se stesso.
Il Toro sorrise. Da quella posizione non avrebbe potuto mancarlo neppure se avesse voluto.
“Chi sa deve morire”.
Era giusto, chi era a conoscenza di quel segreto doveva morire. Ma Henkel e le due giovani donne sapevano davvero?
Fin da Firenze era stato attento a non creare danni collaterali. Durante l’attentato era perfino riuscito a togliere di mezzo due dei partecipanti all’asta, senza che degli innocenti pagassero con la vita a causa dell’arroganza di quella gente.
Per un solo istante indugiò, domandandosi se ammazzarli tutti fosse davvero la cosa giusta da fare. Ciò che quel Dio, che ultimamente aveva smesso di apparirgli in sogno, gli chiedeva realmente.
Non ebbe il tempo di prendere una decisione, che un’auto lanciata a tutta velocità arrestò la sua corsa a pochi centimetri da lui.