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Venezia. 09:25.

 

Il colpo del batacchio sul supporto di bronzo risuonò come un tuono nella chiesa di san Giovanni Battista in Bragora.

L’agente speciale Graham Dawe batté i piedi sul sagrato di campo Bandiera e Moro, poco distante da piazza San Marco, e attese.

Il cielo grigio minacciava pioggia e la piccola piazza a forma di pentagono era battuta da un vento gelido proveniente dalla laguna.

Davanti a lui, la facciata scarna della chiesa aveva un aspetto sinistro. La lunetta gotica che sovrastava l’ingresso era scrostata e, per quanto Dawe si sforzasse, non riusciva a capire cosa raffigurasse.

Dopo una trentina di secondi il portone fu aperto e comparve un anziano gobbo con un paio di grandi occhiali neri.

«Mi manda monsignor Savelli», esordì l’agente. Come tutti gli operativi dell’SSV, prima di passare al servizio di Santa Romana Chiesa, era stato dipendente di un’intelligence straniera.

Aveva quarantacinque anni, un fisico minuto, un viso squadrato con le lentiggini che coprivano il naso affilato, e folti capelli biondi con la riga di lato. Per un ventennio aveva lavorato nella CIA. Dalla base americana di Camp Ederle, vicino Vicenza, aveva coordinato la maggior parte delle missioni tra il Medio Oriente e l’Africa. Molte persone erano morte a causa dei suoi ordini e alcuni governi erano stati perfino rovesciati. Lui, però, aveva sempre cercato di tenere distinta la sua vita privata da quella lavorativa. Aveva sempre eseguito gli ordini e non si era mai fatto troppe domande.

Era un uomo rude, sicuro di sé, e aveva sempre creduto che nulla l’avrebbe mai potuto impressionare. Almeno fino al 2009, quando le sue certezze avevano cominciato a vacillare. Si trovava in Somalia, il Paese era fuori controllo e i guerriglieri del movimento Al Shabaab compivano indisturbati le loro scorrerie. Durante una missione si era trovato faccia a faccia con alcuni miliziani. Un gruppetto armato di machete aveva selezionato sette cristiani e li aveva decapitati, diffondendo poi le immagini strazianti sui maggiori siti jihadisti. Tutto era successo davanti ai suoi occhi, senza che lui potesse opporsi o provare a salvarli. Se l’avesse fatto la sua copertura sarebbe saltata. Ma il rimorso per non aver mosso un dito lo aveva dilaniato.

Tornato in patria, aveva quindi presentato le sue dimissioni e poi si era trasferito sulle colline toscane. Non era passato molto tempo che un emissario dell’SSV era venuto a cercarlo. Quell’emissario si chiamava Andreas Henkel.

«Sappiamo quello che è successo e che non hai potuto impedirlo», gli aveva confidato, in quella che era cominciata come una rimpatriata tra colleghi. «Ti conosciamo e crediamo che ti potrebbe interessare la nostra proposta…».

E così, Graham Dawe era passato al Servizio Segreto Vaticano, poi diventato per lui come una nuova famiglia. Non aveva potuto salvare quei sette innocenti, ma forse avrebbe potuto impedire che ad altri accadesse la stessa cosa.

 

«Mi segua», gemette l’omino davanti al portone. «Il Gran Maestro la attende».

L’agente speciale entrò nella chiesa templare – la stessa in cui venivano insigniti i nuovi Cavalieri Guardiani di Pace – e lo seguì fino a un corridoio dietro l’abside.

«È in biblioteca», bofonchiò ancora, indicando una porta.

Dawe aprì e si ritrovò catapultato in un’atmosfera medioevale. Il locale aveva soffitti alti, era ampio e poco illuminato. Le colonne tortili sorreggevano degli archi gotici e le finestre erano strette e lunghe. In fondo si vedeva una grande scrivania alla quale era seduto un anziano dai capelli canuti.

«Piacere di conoscerla», disse Graham, appena si fu avvicinato, tendendogli la mano.

«Sono contento che sia venuto», cominciò il Gran Maestro.

«Monsignor Savelli era un po’ preoccupato per quanto è successo a Firenze e mi ha pregato di verificare di persona».

«Come ho detto a Raniero, la situazione è sotto controllo. Ci stiamo occupando della cosa».

«Il monsignore gradirebbe avere maggiori dettagli. Dopotutto, la questione è di estrema gravità…».

«Ne sono perfettamente consapevole».

«Ci sarebbe poi un altro aspetto da discutere», Dawe indugiò. «È un po’ delicato e le confesso che mi sta molto a cuore», aggiunse.

L’anziano si assestò sulla poltrona e l’agente riuscì a scorgere le iniziali E.C. sotto il taschino della camicia.

Per alcuni attimi nessuno dei due parlò. Fu nuovamente Graham a rompere il silenzio. «C’è un mio collega dell’SSV… Andreas Henkel. Credo che lo conosca. Si sta interessando troppo del caso».

«Quindi?»

«Non possiamo permetterci intrusioni di nessun tipo». Dawe ebbe un’esitazione, con il cuore pesante per ciò che stava per dire. Stimava Henkel e pur non considerandolo un amico lo riteneva una persona corretta. Stava per pronunciare una frase di cui era certo si sarebbe pentito. «Bisognerebbe impedirgli di continuare a scavare».

Avrebbe voluto aggiungere “senza fargli del male”. Avrebbe dovuto dirlo, soprattutto in virtù di quanto c’era stato tra loro in passato. Ma, da uomo di ghiaccio qual era, non lo fece. “Andreas avrebbe fatto lo stesso”, si disse, senza crederci poi molto.

In quell’istante il telefono sulla scrivania squillò sommessamente.

E.C. rispose e si limitò ad ascoltare, spostando la cornetta da un orecchio all’altro.

«È sicuro che sia proprio lui?», interrogò il suo interlocutore alla fine. Poi alzò lo sguardo e sorrise a Dawe. «Pare che oggi la fortuna sia dalla nostra parte. Ha la mia autorizzazione. Risolva il problema».