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Venezia. 10:19.
Il frastuono da oltre centosettanta decibel della flashbang, la granata stordente, non si era ancora sopito, che la porta della biblioteca fu fatta saltare.
I militari, divisi in due gruppi, si infilarono tra le colonne tortili e si misero in formazione: due uomini in ginocchio e uno in piedi. I mirini elettronici, posizionati sui fucili d’assalto Heckler & Koch G36, si muovevano in cerca degli obiettivi.
«Squadra tre in posizione», esclamò uno dei componenti del Gruppo di Intervento Speciale dei carabinieri. Indossava, come i suoi colleghi, una tuta protettiva OP di colore nero, giubbetto antiproiettile, protezioni in kevlar e casco con visiera.
«Squadra due in posizione», gli fece eco un’altra voce dall’auricolare.
E in quel momento, la fila di finestre affacciate su campo Bandiera e Moro esplose.
Davanti alle quattro aperture gotiche, strette e alte, comparvero altrettanti militari, appesi al soffitto con cime di nylon.
«Non muovetevi», ingiunse il comandante della squadra speciale, rivolto ai due occupanti della biblioteca, un uomo muscoloso e un anziano. «Siete in arresto!».
Gli agenti si avvicinarono, strisciando sulle pareti. Quando il più avanzato ebbe verificato che quella zona era bonificata alzò il dito indice verso i colleghi.
Le irruzioni di quel tipo, pur essendo all’ordine del giorno per gli uomini del GIS, erano ad altissimo rischio. Dovevano svolgersi in pochissimi attimi, in maniera che si riuscisse ad arrestare i sospettati senza sparare neppure un colpo. Quella mattina, però, le cose andarono diversamente.
Mentre il più giovane dei due obiettivi alzava le mani, consapevole che non c’era via di scampo, l’anziano agì in modo del tutto imprevedibile: si mosse improvvisamente e di scatto aprì il cassetto della scrivania. Ne estrasse una Luger luccicante e fece fuoco in direzione degli archi del soffitto.
Uno dei carabinieri che si stava calando dalla finestra barcollò e cadde.
«Uomo a terra!», avvertì uno dei militari, che subito dopo si accosciò e prese la mira.
Più raggi a infrarossi fendettero il fumo nella biblioteca, fino a centrare il volto dell’anziano che aveva sparato. E.C. rimase immobile per un solo istante. Avrebbe fatto nuovamente fuoco, ma fu preceduto da tre proiettili esplosi dai fucili d’assalto dei GIS. Nessuno andò a segno perché davanti al vecchio si frappose l’altro uomo.
Il Toro vacillò mentre estraeva la sua arma e subito dopo si portò le mani al costato. Per un’ultima volta aveva protetto il Gran Maestro, che, approfittando del diversivo, si abbassò dietro la scrivania e sgattaiolò verso l’attigua chiesa.
Proprio in quell’istante, uno dei militari, intuendo cosa stava per accadere, si tolse il casco protettivo e guadagnò l’uscita sulla piazza.
«L’obiettivo sta scappando», sentenziò contemporaneamente un altro. Ma non poté dare l’ordine di seguirlo: l’uomo che aveva fatto da scudo con il proprio corpo a quello più anziano aveva infatti cominciato a sparare all’impazzata verso gli scaffali.
Mentre le pallottole fendevano l’aria, E.C. strisciò carponi verso l’ingresso laterale della chiesa di San Giovanni Battista in Bragora, la sua unica via di fuga. L’abside era a una decina di metri di distanza, ma raggiunto quella avrebbe potuto guadagnare l’uscita con facilità.
Si voltò verso il Toro. Si stava comportando esattamente come era giusto fare. “Per quanto si travesta da pecora, un leone resta sempre un leone…”, rifletté, mentre lui, ferito, sparava colpi a ripetizione per permettergli di fuggire.
Ed E.C. non aveva intenzione di perdere quell’occasione. Si concentrò sull’ingresso attiguo della chiesa e strizzò gli occhi nella penombra: oltre la scrivania della biblioteca, dietro la quale era ancora rifugiato, c’erano alcuni metri da percorrere allo scoperto. Subito dopo, però, era posizionata una fila di imponenti scaffali di mogano. Certo, avrebbe dovuto fare una corsa, ma poi sarebbe riuscito a entrare indisturbato nella cappella.
Si sporse, per verificare se poteva essere il momento buono: protetti dal fumo dei lacrimogeni, i militari stavano avanzando, lentamente ma inesorabilmente. Doveva sbrigarsi.
Raccolse le forze e abbassando la testa uscì dal suo nascondiglio. Fece un balzo e poi un altro ma riuscì a fare solo pochi altri passi che uno dei piedi d’appoggio cedette.
E.C. cadde lungo disteso sul pavimento, in un punto privo di ogni protezione. Si guardò la caviglia e prima ancora di sentire una fitta lancinante, vide sgorgare un fiotto di sangue. Era stato colpito. Nonostante il dolore, cercò di strisciare solo con l’ausilio delle braccia. E ci riuscì: con uno sforzo sovrumano, disegnando una riga violacea sul pavimento, si accovacciò dietro un mobile. Avrebbe voluto urlare. Non credeva di aver mai sentito tanto male. Ma doveva andare avanti.
Completamente sudato fece un ulteriore sforzo e si intrufolò in chiesa. Si alzò e zoppicando raggiunse l’altare. Si sedette sui gradini per rifiatare, la schiena appoggiata al marmo gelido.
Come per un riflesso condizionato, portò le mani alla tasca dei pantaloni. La chiave della cassetta di sicurezza era ancora lì… doveva nasconderla prima che fosse troppo tardi.
Ma era già troppo tardi.
«Enrico Castelli, meglio noto come mister E.C.», chiarì una voce. Un uomo, dalla parte opposta della chiesetta, stava avanzando al buio, lungo la navata centrale. Si trattava dell’agente uscito poco prima dalla biblioteca: era tornato sul piazzale e poi si era infilato in chiesa dall’ingresso principale. Aveva il capo scoperto e indossava la stessa tuta d’assalto di carabinieri del GIS, ma non era uno di loro…
«Andreas Henkel», scoprì con sgomento l’anziano, una punta di rammarico nella voce. «Dovevo immaginarlo…».
«Dove sono i manoscritti degli Illuminati?», gli ruggì addosso Andreas, puntandogli la sua arma in faccia.
E.C. sorrise, sornione. Doveva trovare il modo di nascondere quella maledetta chiave. Strinse la Luger nella mano destra e provò a infilare l’altra in tasca, cercando di alzarsi. Forse aveva in mente di gettare la chiave da qualche parte, o magari perfino di ingoiarla. Ma non riuscì a fare nulla di tutto ciò.
In quell’istante, uno spruzzo di sangue color amaranto si disegnò sull’altare della chiesa. E.C. ricadde all’indietro, tramortito da un proiettile proveniente dalla biblioteca.
Henkel, che ormai era a un paio di metri, si gettò su di lui, nel tentativo di sorreggerlo. Ma era troppo tardi, non c’era più nulla da fare: davanti all’ingresso che dava sul locale attiguo c’era un agente del GIS con il suo H&K G36 fumante tra le braccia.
«Obiettivo abbattuto», comunicò quello, freddo. «Era armato. Stava per sparare».
Henkel scosse il capo. Con E.C. morto trovare i rotoli sarebbe stato ancora più difficile, se non impossibile. Tuttavia non fece in tempo a rammaricarsi: il riflesso della chiave nella mano del cadavere attirò la sua attenzione.
«Agente Henkel, lei sta bene?», indagò il militare, mentre allontanava la Luger con l’anfibio.
Henkel, con un movimento degno di un prestigiatore, fece sparire l’oggetto metallico nella sua manica e poi fissò il giovane nella visiera nera. «Molto bene!».