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Gerusalemme. Mezz’ora dopo.
“La casa di Dio”.
Alla giovane Elisheva Ravitz, Elisabeth per gli amici o Eliush per il suo ex fidanzato, quella definizione non piaceva affatto.
Certo, le avevano insegnato che sul monte di Moriah, su una pietra simile a tante altre, Abramo era stato sul punto di sacrificare suo figlio. Lì, dove oggi sorgeva la cupola dorata visibile da ogni vicolo della Città vecchia, era sorto il tempio di Salomone, poi Erode vi aveva fato costruire una grande spianata. Lì, i credenti delle tre grandi religioni monoteiste erano soliti andare per ritrovare un po’ di spiritualità. E proprio quello era il luogo che aveva fatto diventare Gerusalemme città sacra prima per gli ebrei, poi per i cristiani e infine anche per i musulmani.
Nonostante fosse figlia di un rabbino, non era mai stata interessata a Dio. Non era credente, odiava gli usi imposti dalla dottrina e anzi riteneva che fosse proprio la religione la causa dei problemi del suo Paese. Ciò che le premeva in quel momento era invece superare il Santo Sepolcro e la Cittadella, dove immaginava avrebbe trovato la solita folla di fedeli.
Quando, camminando con passo marziale, fu all’altezza di Ecce Homo, l’arco romano costruito in onore dell’imperatore Adriano, voltò a sinistra, in direzione del quartiere ebraico. Il vicolo, come tutti quelli a ridosso del monte del Tempio, era stretto, affollato e soffocato da botteghe di ogni genere. Oltre i ponticelli di pietra e gli archi gotici che incombevano sopra quel labirinto di stradine, si riusciva a tratti a scorgere uno scorcio di cielo azzurro.
Elisabeth rallentò il passo, stringendo a sé il casco del motorino che teneva stretto in mano. Indossava jeans sdruciti e una semplice camicetta; era una ragazza minuta con grandi occhi neri, un brillantino al naso e treccine castane che svolazzavano fuori dal casco. Non era molto appariscente, tuttavia quando si trovò due soldati di guardia a un incrocio, questi le sorrisero. Lei li salutò a sua volta e proseguì verso la porta di Giaffa, l’unica sul lato occidentale della cinta muraria antica.
Era in ritardo per la lezione all’università, ma l’importante era almeno riuscire a entrare in aula prima che il professor Aaron Friedman finisse. Aveva già provato a incontrarlo il giorno precedente, tuttavia le avevano detto che era fuori città. Dalla risposta automatica dell’email della facoltà sapeva però che quella mattina ci sarebbe stato.
Per essere sicura che il professore le riportasse la sua tesina, che aveva promesso di leggere in anticipo, aveva però fatto un passo ulteriore: con i suoi metodi poco convenzionali aveva trovato il suo indirizzo di posta elettronica personale e gli aveva scritto, per evitare che se ne dimenticasse.
Superato il quartiere cristiano, fortunatamente senza trovare assiepamenti di pellegrini, raggiunse il vecchio motorino parcheggiato sotto la torre di Davide e montò in sella. Uscita dalla Città vecchia si diresse verso nord e in trentacinque minuti fu a destinazione. Attraversò il campus del Monte Scopus di corsa ed entrò nell’aula magna della Hebrew University.
«La comparsa dei sumeri attorno al 3800 avanti Cristo porta con sé domande alle quali nessuno di noi è in grado di rispondere», stava dicendo dal palco il professor Friedman. Era un uomo di mezza età, con i capelli striati d’argento e un fisico asciutto. «La loro civiltà era già formata, completa di conoscenze scientifiche, tecnologiche e linguistiche».
Elisabeth, borsone a tracolla, immancabile Mac e casco sotto il braccio, si sedette nell’ultima fila e continuò ad ascoltare. Conosceva bene le vicende storiche che riguardavano i sumeri. Anzi, erano state proprio le domande senza risposta del professor Friedman che l’avevano fatta appassionare all’argomento.
«In tutte le manifestazioni culturali diffuse sul pianeta sono stati i primi: dalla scrittura alla letteratura, dalla agronomia alla geometria, dalla matematica all’astronomia». Sullo schermo dietro il professore comparve l’immagine di una tavoletta sumera. Si vedeva il sole al centro e alcuni astri che ruotavano attorno. «Quella che vedete è la riproduzione del sigillo accadico VA/243».
Elisabeth fissò l’immagine:
La conosceva bene: era una rappresentazione grafica del sistema solare custodita nel museo di Stato di Berlino. Si vedevano undici corpi celesti, nove pianeti, la luna e un misterioso undicesimo astro. Era proprio quel disegno ad aver alimentato su internet il “mito” del decimo pianeta.
«Questo sigillo ci dimostra che quattromilacinquecento anni prima di Galileo, i sumeri conoscevano il sistema eliocentrico», proseguì il professore, dopo aver bevuto un sorso d’acqua. «Conoscevano la distanza della Terra dalla luna e quella dagli altri pianeti. Soprattutto sembravano conoscere la precessione degli equinozi, un fenomeno astronomico complesso che richiede osservazioni nell’arco di ventiseimila anni».
Nell’aula si sollevò un mormorio, ma nessuno interruppe il professore.
«Come dicevamo, la civiltà sumerica compare quasi di colpo, con una cultura di fatto già formata e completa. La domanda con la quale vi lascio sorge quindi spontanea: dove e quando i sumeri acquisirono tutte queste conoscenze?».
Elisabeth sorrise. Lei aveva la sua teoria e l’aveva già messa nero su bianco sulla tesina che aveva consegnato al professor Friedman. Controllò l’orologio: erano le dodici e trenta.
Più o meno nello stesso istante le luci nell’aula si accesero e Friedman sorrise. «Per oggi è tutto: il tempo vola», concluse, togliendosi gli occhiali. «Vi aspetto la settimana prossima».
«Professore…», strillò Elisabeth, precipitandosi giù dalle scale tra due file di banchi, mentre gli altri studenti guadagnavano l’uscita. «Sono Elisheva Ravitz. Le ho mandato un’email».
Lui si voltò, inarcando un sopracciglio appena notò il suo abbigliamento. «Ah è lei, Elisheva. L’hacker che è riuscita a ottenere il mio indirizzo privato… Prima o poi mi spiegherà come ha fatto!».
«Proprio io», gli sorrise, affabile. Il look all’occidentale, che tanto faceva arrabbiare suo padre, l’aveva costretta ad abituarsi a occhiate ben peggiori di quelle di Friedman. «Ha avuto modo di leggerla quindi? Domani devo consegnarla al professor Shapira».
«È quella sulla teoria rae… Sì. L’ho trovata…». L’accademico si fermò in cerca della parola più adatta. «Interessante. Soprattutto la parte sul Kevod», disse, mentre rovistava nella sua borsa portadocumenti.
Lei sorrise di nuovo, mostrando una dentatura bianca e perfetta. «La ringrazio molto. Mi ha riportato la stampa? Avevo annotato a mano degli appunti e vorrei copiarli sul file definitivo».
Friedman continuò a frugare nella borsa e poi scosse la testa. «Credevo di averla con me. Devo averla dimenticata a casa. Passi domani dall’istituto di storia».
«Veramente», Elisabeth si rabbuiò, «l’avevo già cercata ieri proprio perché ormai sono agli sgoccioli… devo consegnarla e ho bisogno di un po’ di tempo per fare le modifiche».
Friedman non replicò. Si limitò ad abbottonarsi la giacca di tweed e a osservare la ragazza con occhi inespressivi.
“Si sente in colpa?”, si domandò Elisabeth.
«Senta, facciamo così», propose il professore alla fine. «Mi lasci il suo numero. Più tardi le mando il mio indirizzo di casa. Questa sera non ci sarò, ma lascerò la tesina alla domestica».
«Grazie mille, professore. Mi ha salvato la vita», rispose lei, mentre scarabocchiava su un foglietto colorato il suo numero di cellulare.
Pochi minuti più tardi attraversò il campus, diretta all’uscita. Era l’ora di pranzo e non c’era quasi nessuno. Solo un uomo, all’ombra della grande torre, seduto su una panchina. Aveva un computer sulle ginocchia e una macchina fotografica.
Elisabeth gli passò accanto senza notarlo e non si accorse che le immagini che scorrevano sul suo monitor, oltre al professor Friedman, ritraevano anche lei.