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Atene. 20:50.
-26:09:48 alla deadline.
Walid era nervoso accanto al suo Cessna, parcheggiato al buio a bordo pista.
Aveva le taniche di carburante in mano, camminava avanti e indietro, come un cane che cerca di afferrarsi la coda.
Era atterrato in quel campo di volo, nella periferia sud-est della città, da oltre due ore e sapeva che restarci a lungo era pericoloso.
La struttura principale, fiancheggiata da una malandata lingua d’asfalto, era un grosso edificio di mattoni rossi, con un tetto spiovente e pluviali arrugginiti. Le finestre erano sigillate con travi di legno inchiodate a X. Non c’era alcuna luce che testimoniasse la presenza di custodi o addetti.
Era già atterrato lì qualche mese prima, per imbarcare un carico di medicinali diretti a Gaza, e sapeva che la società che gestiva il piccolo scalo era fallita. In passato quel posto doveva essere stato colmo di piccoli jet e di alianti che gli appassionati facevano decollare durante i weekend. Ma adesso, per fortuna, era abbandonato, con la vegetazione che si stava lentamente riappropriando dello spazio sottrattole dall’uomo.
In ogni caso, utilizzare quella pista avrebbe potuto metterlo in serio pericolo. Anche perché il suo Cessna, con cinquant’anni sulle ali, era privo di trasponder e aveva il motore ampiamente modificato.
Più rimaneva in quel vecchio scalo, più era probabile che arrivasse qualche curioso. Come quell’auto parcheggiata su un piccolo crinale a nord-est, a circa trecento metri da lui. Era ferma da alcuni minuti, con i fari che fendevano l’oscurità, e sembrava non volersi muovere. O forse, più semplicemente, non lo aveva ancora visto. Chi diavolo era?
«Elisabeth, Elisabeth», imprecò fra sé. Quella ragazza era incredibile: nonostante si fossero lasciati da tempo, riusciva sempre a ottenere da lui ciò che voleva. Come trasportare due perfetti sconosciuti a mille chilometri di distanza.
Walid spense la sigaretta che gli rischiarava il viso, passò davanti alla prua del velivolo e aprì il portellone. Sistemò le due taniche vuote di carburante nel vano dietro i sedili e fissò l’orologio. Aveva promesso di aspettarli, ma non poteva restare ancora a lungo, soprattutto se voleva rientrare nella striscia col favore del buio.
«Sta diventando una cattiva abitudine», abbaiò Viola, anche se aveva il sorriso sulle labbra. «Rubare le auto, intendo!».
Erano a bordo di un’utilitaria color salmone, che Henkel aveva messo in moto poco lontano dal luogo dell’aggressione del Toro. Ancora una volta gli erano sfuggiti, ma a tutti e tre era parso chiaro che non si era trattato di semplice fortuna. Dopo che un’auto aveva rischiato di investirlo, il killer si era limitato a osservarli fuggire. Avrebbe potuto fare fuoco e certamente non li avrebbe mancati. Ma non l’aveva fatto. Li aveva semplicemente lasciati andare via, anche se loro non potevano comprenderne il motivo.
Durante il viaggio dal centro della città verso la periferia, l’agente dell’SSV aveva poi lasciato il volante a Viola ed era sprofondato in un silenzio meditabondo. Adesso se ne stava con lo sguardo fisso sulla strada che scorreva buia oltre i fari dell’auto.
«Che intenzioni avete, compagni?», si informò Elisabeth, dal sedile posteriore. «Il grassone ha semplicemente confermato le mie teorie».
«I figli del cielo che hanno creato l’uomo a loro immagine…», le rispose Viola, sussurrando appena. «E poi sono stati adorati come dèi?»
«Il sarcasmo davanti a ciò che non si comprende è una reazione normale», ribatté la ragazza. «Non capite cosa sta succedendo?»
«Lo capiamo eccome…». Henkel si voltò e, nonostante il buio, il suo sguardo la fulminò.
«E che intenzioni avete. Per trovare la tua fidanzata, intendo… Perché è quello lo scopo ultimo, no?»
«Non abbiamo altre piste, purtroppo».
Quella risposta così perentoria stupì Viola. Non lo conosceva bene, ma in quei due giorni in cui avevano condiviso tutto, le era parso un uomo deciso a non arrendersi mai. «Una pista invece c’è…», annunciò, sicura.
«Quale sarebbe?»
«Elisabeth potrebbe avere ragione», sorprendentemente Viola le diede manforte. «Chi più chi meno, tutti i partecipanti all’asta condividevano quella stessa teoria. Ciascuno ne vedeva una parte diversa e cercava di comprenderla a suo modo: Zonca con la Bibbia interpretata letteralmente, Friedman con i sumeri e le storie sui raeliani, Simonides con la genetica. Vista nel complesso, quella strana idea potrebbe però essere, da sola, un valido movente».
«Stai dicendo che l’asta non c’entra?». Henkel scosse la testa ripetutamente e incrociò le braccia sul petto. «Il Toro avrebbe ucciso quelle persone solo per le loro idee?»
«Non sto dicendo questo. L’asta c’entra, evidentemente. Ma il fatto che oltre al furto dei rotoli siano stati uccisi anche tutti i sostenitori di quelle teorie non è casuale. Ci può aiutare a identificare un movente e forse un possibile mandante…».
«Il Vaticano…», aggiunse Elisabeth. «Sono loro che hanno tutto l’interesse a che questa storia non venga fuori!».
«Sono già stato in Vaticano! I rotoli non ci sono». Henkel era sicuro che Perrone, il segretario di Stato, gli avesse detto la verità: non sapeva nulla dei manoscritti degli Illuminati e probabilmente neppure del Toro. I mandanti però, in effetti, all’interno delle mura leonine, potevano essere molti…
Viola restò in silenzio, concentrata sulla guida. Si limitò a scalare marcia e a immettersi in una stradina costeggiata da palme e oleandri. «Ragioniamo con calma», propose poi. «Ammettiamo per ipotesi che Elisabeth abbia ragione. Se è così, la storia che racconta la Bibbia è solo una delle tante storie che avrebbero potuto arrivare fino a noi. Il popolo di Israele, tra i tanti del mondo, è l’unico che è riuscito a mettere nero su bianco quanto è accaduto prima e dopo il diluvio universale».
«Se le cose fossero andate diversamente, oggi invece che di Yahweh potrebbero essere tessute le lodi di altri Elohìm. La Bibbia è chiarissima, a un certo punto le terre emerse furono distribuite tra gli “dèi”. Di alcuni conosciamo i nomi. Di altri no».
«Se hai ragione, le tre religioni abramitiche sono una fortunata coincidenza… Oggi potremmo essere seguaci di Thor, o addirittura di Zeus, invece che di Abramo!».
«Ecco cosa stanno cercando di nascondere», sbottò all’improvviso Henkel. Aprì il finestrino e una ventata d’aria gelida gli schiaffeggiò il viso. «La questione extraterrestri, vera o falsa che sia, non interessa realmente alla Chiesa… i fedeli non ci crederebbero mai. C’è un’altra cosa più pericolosa!».
«Cosa?», fecero, in coro, le due donne.
«In Giudici, e in molti altri libri, viene narrato quello che tu hai sintetizzato. A un certo punto, nell’antichità, ci fu una spartizione di terre tra dèi. La Bibbia dice che solo uno era il vero Dio e gli altri erano solo idoli di pietra…».
Elisabeth sorrise. «Affidarono le nazioni a dèi di pietra…?»
«Questa interpretazione potrebbe essere stata creata per proteggere un principio cardine della nostra religione, il monoteismo!», si intromise Viola.
«Se i libri perduti confermassero che gli dèi non erano idoli di pietra, si comprenderebbe che Yahweh non era il solo e unico Dio… e addio monoteismo…».
Henkel annuì.
«E non solo…», aggiunse la ragazza. «Qualcuno potrebbe dire – io per esempio – che la Chiesa è stata fondata su una menzogna… Che l’aldilà non esiste perché gli dèi, per quanto potenti, erano soltanto individui. Erano impegnati a farsi la guerra per contendersi i territori che gli erano stati assegnati dal loro capo…».
Quelle parole, improvvisamente, cominciarono a risuonare in modo sinistro nel cervello dell’agente dell’SSV.
L’aldilà non esiste.
Il fondamento della fede, il principio secondo il quale, comportandosi bene in questo mondo si ottiene la ricompensa nella vita eterna, poteva essere una menzogna?
Non voleva mettere in discussione il cardine della sua religione. Non aveva intenzione di farlo, ma più rifletteva su quanto aveva scoperto, più quel tarlo lo tormentava. E poteva addirittura essere la ragione che avrebbe potuto spiegare quella catena di omicidi…
Si costrinse a riflettere su qualcos’altro. Su Stella, che era l’unica cosa che in quel momento gli doveva interessare realmente. «Ok, ammettiamo che abbiate ragione sul Vaticano. Suggerimenti?»
«Se il Toro agiva, come mi hai detto a Gerusalemme, per la Chiesa…», sintetizzò Viola, «direi che dobbiamo andare a Roma!». Sorrise e, come in un riflesso condizionato, mise la mano all’interno del giubbotto, per accarezzare la superficie di due piccoli oggetti metallici.
Henkel rimase in silenzio, cercando di venire a patti con le informazioni acquisite: sapeva che tornare in Italia era un suicidio, soprattutto per il sottotenente. Glielo disse e per tutta risposta ottenne un sorriso.
«Non ti preoccupare…», lo rassicurò lei. Nonostante tutto gli doveva la vita, e forse grazie a Henkel avrebbe potuto discolparsi. Aveva deciso che l’avrebbe aiutato, almeno per quell’ultima volta. «So come cavarmela».
Lui sbirciò lo speciale orologio al polso e sospirò… mancava poco più di un giorno alla deadline. Dopotutto c’era ancora tempo… Si domandò se poteva essersi sbagliato su Savelli. Poteva essere lui il mandante dei delitti? Forse, ma i rotoli non li aveva di certo. In ogni caso poteva però sapere qualcosa di più di quello che gli aveva rivelato.
Nel frattempo l’auto era giunta in prossimità del campo di volo. La recinzione era infestata di rampicanti e l’asfalto punteggiato di cespugli. L’insegna, illuminata dai fari, era per terra, divelta e posizionata tra i due battenti del cancello arrugginito, in maniera che non si richiudesse.
Elisabeth scese e aprì. L’inferriata cigolò nel silenzio della notte, ma non fu quello ad attirare la sua attenzione: a pochi metri da lei, un’auto con i fari accesi, ferma su un crinale, accese il motore.
«Speriamo che Walid ci abbia aspettato», disse, rientrando nell’auto e cercando di fendere l’oscurità con lo sguardo. «Credo che qualcuno sia qui per noi!».
Henkel scrutò nello specchietto. La macchina era un grosso fuoristrada e adesso stava venendo verso di loro. Passò sotto un lampione e voltò a sinistra, per intercettarli. «Potrebbe essere una società di vigilanza», dedusse, dopo aver intravisto, su una fiancata, un simbolo simile alla stella di uno sceriffo.
«Accelera!», ordinò Elisabeth, intravedendo a un centinaio di metri il profilo tozzo del Cessna.
Walid alzò lo sguardo e la individuò: l’auto che era rimasta ferma negli ultimi minuti si era mossa e stava seguendo da vicino una macchina più piccola.
Il giovane si sistemò nella cabina di pilotaggio, azionò i comandi e mise in moto. Il motore, però, sembrò non volersi avviare.
«Dài!», incitò, infierendo con l’indice sul pulsante di avviamento.
Nessun risultato.
Sfiorò una serie di altri comandi e cominciò a muovere la cloche avanti e indietro, con nervosismo.
«Non fare scherzi!».
Riprovò ad accenderlo.
Ancora nulla.
Scosse il capo e si voltò verso le due auto. Quella più piccola, davanti, era a circa cinquanta metri da lui. L’altra sembrava più distaccata.
«Walid… prepara il cherubino!», strillò una voce femminile.
Il giovane, riconoscendo quella di Elisabeth, riprovò ad avviare il motore. Indugiò un istante, con l’indice che tremava titubante. Poi premette il pulsante. «Dàààài!».
Il vecchio Avco Lycoming da duecentotrentotto cavalli tossì, come se ancora rifiutasse di accendersi, ma poi si mise in moto scoppiettando in modo poco convinto.
L’auto intanto si era fermata dietro la coda del Cessna. Un istante più tardi i portelloni si aprirono e i tre saltarono dentro, mentre le ruote del velivolo cominciavano a sobbalzare sull’asfalto.
«Se ne usciamo vivi troverò il modo di sposarti…». Un sorriso sornione si dipinse sulle labbra di Elisabeth. Gli diede un bacio sulla nuca e si voltò verso il fuoristrada.
L’auto dei vigilanti aveva guadagnato terreno. Aveva cominciato a suonare il clacson e adesso era accodata al monomotore, che faticava a prendere velocità.
Occorsero dieci interminabili secondi perché il Cessna, tallonato sulla pista, riuscisse ad accelerare. Poi, improvvisamente, il carrello cominciò a saltellare in modo scomposto sull’asfalto e si staccò dal suolo.