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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. Pochi istanti prima.
«Che razza di posto è?», esclamò Elisabeth, quando il pick-up di Massoud si fermò tra gli alberi, oltre un crinale.
Nonostante fosse buio pesto, la vallata dell’Adji Chay, che si apriva sotto di loro, luccicava come una lama di coltello alla luce della luna. In fondo, addossata alla montagna, si stagliava l’immensa base cinese, costellata da decine di edifici e con una pista d’atterraggio illuminata. Nella parte terminale si notava un grosso velivolo bianco con il logo UN sulla fusoliera. Ciò che più la impressionò fu però l’imponente cupola che si innalzava nell’oscurità come un gigante addormentato.
«La chiamano il Giardino», riferì l’autista, la voce ridotta quasi a un sussurro. «Sembra sia una grande serra».
Durante l’ultima ora, l’ex guida iraniana aveva avuto modo di raccontare per sommi capi ciò che sapeva dell’installazione. Aveva spiegato che da alcuni mesi molte voci si rincorrevano in città: si diceva che in quel luogo avvenissero guarigioni miracolose. Per quella ragione molti poveri disgraziati si erano accampati fuori dai cancelli nella speranza di poter aiutare i loro cari… e lui era uno di quelli.
«Cos’ha esattamente tua figlia?», gli aveva domandato Viola, mentre l’auto si inerpicava su un sentiero tortuoso. Come gli altri componenti della missione, era rimasta assolutamente sconvolta quando, all’arrivo di Massoud al confine, aveva saputo della piccola Anahita… e del motivo per il quale l’uomo l’aveva portata con sé.
«Un male che non può guarire!», aveva tuonato lui. Poi aveva fatto una pausa, fissando nell’ombra la strada fangosa oltre il parabrezza. Davanti a loro avanzava la silhouette dei monti Savalan e tutt’intorno i filari di querce scorrevano veloci come quadri impressionisti. «Non sto rischiando la mia vita per voi», aveva aggiunto dopo alcuni attimi d’imbarazzo. «Lo sto facendo solo per lei!».
«E come pensi che potremo aiutarti?», gli aveva chiesto Henkel, con la sua solita schiettezza.
«Gli americani mi hanno detto che entrerete nella base». Si era voltato verso l’agente dell’SSV e lo aveva fissato con uno sguardo deciso. «Voglio solo venire con voi. Poi me la caverò da solo».
Dawe, che era seduto proprio dietro all’autista, a quel punto era intervenuto: «E poi, quando saremo dentro, cosa hai intenzione di fare, esattamente?».
Fino a quel momento Massoud era stato in dubbio se rivelare i particolari del suo piano. Inizialmente aveva perfino pensato di attuarlo da solo. La vista delle armi di Henkel e compagni lo aveva però convinto del contrario: forse potevano essere utili l’uno agli altri. Per quella ragione aveva estratto un foglio a quadretti piegato in quattro parti e lo aveva passato all’americano.
«Cos’è?»
«Il motivo per cui ho accettato questo lavoro», aveva concluso.
E un’ora più tardi l’operazione era in pieno svolgimento: l’ex guida aveva fermato l’auto su un promontorio nascosto tra i rami e Henkel e Dawe erano scesi a piedi. Come due fantasmi si erano addentrati tra i rovi e nel buio si erano diretti al cancello occidentale della base, passando per l’accampamento. Massoud, invece, era rimasto in auto con sua figlia e le due donne.
«Dove siamo esattamente?». Elisabeth stava armeggiando con il suo smartphone, ma a causa della schermatura satellitare, il dispositivo non riusciva ad agganciare il segnale GPS.
«Vicini al confine con l’Azerbaigian e l’Armenia», gli rispose l’iraniano. «L’antico nome delle paludi dell’Adji Chay è Meidan, che significa “giardino recintato”. Forse è per quello che hanno chiamato la base il Giardino».
«Come hai detto?». L’espressione di Elisabeth si illuminò, rischiarata non solo dalla luce bianca del display del telefono. Lo spense e si sporse tra i sedili. «Giardino recintato?».
Massoud parve stupito dalla reazione della ragazza. Accennò quello che poteva sembrare un sorriso e annuì.
«Non è possibile!», sentenziò la giovane, con voce ferma.
«Che cosa significa?», domandò Viola. Come in un riflesso condizionato accarezzò la testina di Ana, sdraiata accanto a lei.
«Quando il Vecchio Testamento parla del giardino dell’Eden», spiegò, «lo definisce Gan-Eden, che letteralmente significa “giardino recintato e protetto, situato in Eden”».
Viola rimase interdetta. «Giardino recintato e protetto», ripeté poi. «Se Meidan significa la stessa cosa è davvero una strana coincidenza».
«Il termine gan corrisponde all’iranico pairidaeza, che richiama il paradeisos greco». Elisabeth, molto più eccitata di quanto la sua voce lasciasse intendere, sciorinò le sue conoscenze. «Senofonte chiamava “paradiso” i giardini dei babilonesi, in cui si coltivavano alberi da frutta di ogni genere».
«Dove vuoi arrivare?»
«…Anche nell’Odissea di Omero si parla di un “grande giardino”, in cui si coltivavano frutti che non mancavano mai in ogni periodo dell’anno». La ragazza abbassò la voce, ma faceva fatica a controllarsi. Si sporse dal parabrezza e indicò, poco lontano, i due corsi d’acqua che avevano attraversato prima di parcheggiare. «Si dice che fosse la residenza del re fenicio Alcinoo, discendente di Poseidone, e che fosse collocato tra due fiumi. Esattamente come questa base!».
Viola scosse il capo, incredula. «Stai dicendo che una multinazionale cinese ha costruito una specie di giardino dell’Eden e che lo ha fatto nel luogo in cui era realmente il paradiso terrestre?»
«Secondo la teoria dei creatori che non piace a Kevod, l’Eden non era altro che un laboratorio sperimentale. Un grande giardino recintato, o forse una serra, dove venivano fatti germogliare alberi di ogni tipo», chiarì Elisabeth. «Come dice la Genesi, lì venivano incrociate piante i cui frutti erano “piacevoli da vedere e buoni da mangiare”».
«Sei pazza».
«Ti stupiresti se fossi a conoscenza delle recenti scoperte paleobotaniche! Proprio in questa zona, negli ultimi cinquemila anni è comparso quasi dal nulla un numero impressionante di vegetali… Che poi si sono evoluti con altrettanta sorprendente rapidità».
«Questa è una grande serra!», si intromise l’autista, all’improvviso, fissando le due donne nella penombra del veicolo. «Qui si occupano di “angiosperme” e “palinologia”». Nonostante il suo inglese fosse appena decente, aveva ben compreso le parole di Elisabeth e aveva ripensato al suo colloquio con la cinese a capo della base. «Quello che fanno è proprio incrociare specie vegetali».
«Se fosse così, tutto avrebbe più senso: anche il furto dei rotoli». La ragazza si mordicchiò le labbra e subito dopo indicò l’immensa costruzione che dominava la valle. «Hanno costruito questa gigantesca serra nel luogo in cui, presumibilmente, ci doveva essere il giardino dell’Eden».
«Ammesso che tu abbia ragione», disse accondiscendente Viola, «e non ne sono convinta… quale sarebbe lo scopo della base? E poi perché rubare i manoscritti degli Illuminati?».
In quel momento lo sportello anteriore del pick-up si aprì con un clangore stridulo di lamiera arrugginita. «Ci siamo», sibilò Andreas Henkel, emettendo una nuvoletta di condensa.
Dietro di lui anche Graham Dawe si sistemò sul sedile. «Il ragno è in posizione». Nonostante il pericolo, era contento di essere tornato in azione e soprattutto di poter restituire un grande favore a Henkel. Poggiò i pollici sul telecomando e premette il pulsante. «Metti in moto… e che Dio ce la mandi buona!».
Non passò un secondo che un bagliore accecante illuminò la notte. Subito dopo si udì un boato e la terra tremò.