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Gerusalemme, 24 ottobre. Ora locale 08:25.
-38:34:46 alla deadline.
Il Bible Project aveva la sua sede nella JNUL, la Biblioteca nazionale d’Israele, all’interno di uno dei quattro campus della Hebrew University, l’università ebraica.
L’edificio principale, un parallelepipedo di cemento ispirato alla villa Savoye di Le Corbusier, dominava la zona di Givat Ram, nella parte occidentale di Gerusalemme.
Andreas Henkel e Viola Puccini varcarono il cancello poco dopo l’apertura. L’aria era frizzante e nel grande spiazzo delimitato da aiuole fiorite c’erano già molti studenti.
Non conoscevano Aaron Friedman, ma su internet avevano scoperto che si trattava di un professore universitario, anche lui membro del Bible Project. Speravano di poterci parlare prima dell’inizio delle sue lezioni, fissato per le nove. Per loro fortuna, il sito web dell’università era aggiornatissimo: oltre all’orario e al programma di Storia delle religioni, la materia insegnata da Friedman, avevano scaricato anche una mappa dettagliata del campus Edmond J. Safra.
«Per di là», fece Viola, indicando una costruzione di mattoni grigi immersa tra gli alberi, alla loro sinistra.
Henkel annuì, lo sguardo teso. Senza il suo cellulare non aveva notizie di Stella e la cosa, nonostante si ripetesse che non c’era pericolo, lo preoccupava. Fissò il suo speciale orologio: mancava poco più di un giorno e mezzo alla deadline. Non sapeva esattamente cosa aspettarsi dal professore, uno dei partecipanti all’asta, tuttavia era felice per essere riuscito ad arrivare al Bible Project così in fretta.
Il viaggio a Tel Aviv era stato sorprendentemente tranquillo, così come il controllo passaporti. A Malpensa, prima di accedere al volo, i funzionari israeliani li avevano torchiati con decine di domande. Era la prassi, riservata a tutti i viaggiatori diretti a Tel Aviv, ed era una delle ragioni per le quali i voli El Al erano i più sicuri al mondo. Lo scopo di quei controlli era verificare che ogni passeggero fosse realmente chi diceva di essere. Lui, che aveva vissuto in Israele, era preparato a quel tipo di interrogatori e aveva indottrinato anche Viola. Lei aveva risposto bene e aveva ripetuto la performance anche all’aeroporto Ben Gurion. La copertura aveva retto e i loro documenti erano passati inosservati, segno che il suo “amico” aveva fatto un buon lavoro.
Improvvisamente la ragazza si bloccò. «Aspetta», obiettò. «Guarda!».
Lui alzò lo sguardo lungo la strada e all’ombra di alcuni ulivi notò due auto della polizia con i lampeggianti inseriti.
«Sanno che siamo qui!», esclamò la ragazza, una maschera di paura sul viso.
«È impossibile», constatò Henkel. «Nessuno sa che siamo in Israele».
L’agente dell’SSV si voltò, circospetto. La Biblioteca nazionale, con le sue colonne di cemento e il portico sospeso, era alla loro sinistra, alla fine di un vialetto pedonale contornato da siepi. Il parcheggio era dal lato opposto, in parte nascosto tra gli alberi. A poca distanza c’era invece un capannello di giovani, alcuni dei quali indossavano la kippah.
Henkel non si fece pregare: si avvicinò e in perfetto ebraico chiese loro cosa stava accadendo.
«Forse arrestano il rettore Malach», ridacchiò uno degli studenti, indicando gli agenti sotto il portico. Stavano parlando con un anziano distinto con giacca in tweet e ventiquattrore in mano.
«Non dire idiozie», lo rimbrottò un altro, più alto e con un vistoso giubbotto di pelle. «Saranno qui per il raeliano. Non avete saputo?».
Gli altri, tra le risate, fecero cenno di no. Il giovane allora proseguì: «Friedman. È stato ammazzato ieri sera!».
A quelle parole, un brivido percorse la schiena di Henkel. Gli occorsero alcuni secondi per metabolizzare l’informazione, ma fu altrettanto celere a elaborare un piano di riserva.
Prese per un braccio Viola e si avviò all’ingresso della biblioteca. Davanti a una rampa che portava al piano superiore, il rettore stava stringendo la mano ai poliziotti. Un secondo dopo questi si diressero alle auto con due grossi scatoloni tra le mani.
«Rector Malach», urlò in inglese. «Ancora una domanda».
L’uomo, tra i sessanta e i settant’anni, squadrò l’agente dell’SSV e Viola, che si avvicinavano. Non si mosse, sembrava si stesse domandando chi fossero.
«Non ci hanno presentato», esordì l’agente, tendendo la mano. «Siamo della polizia italiana. I nostri colleghi di Gerusalemme le avranno detto che stiamo conducendo un’indagine parallela sul professor Friedman».
Il rettore mormorò qualcosa in ebraico che Viola non comprese. Era visibilmente scosso e non si preoccupò di chiedere a Henkel il distintivo. «Veramente mi hanno appena comunicato la notizia del suo decesso…», fece notare, in inglese. «Fino a dieci minuti fa non ne sapevo nulla».
«Le avranno però riferito che il professore l’altro ieri era a Firenze…».
L’anziano cadde dalle nuvole. «Non so in che guaio si fosse cacciato, ma oltre alla polizia e a voi si è già fatto vivo un americano della CIA e anche lo Shin Bet. Sembra che oggi tutti vogliano parlare con me… ma nessuno mi dice nulla!».
«L’indagine è ancora all’inizio…», aggiunse Henkel, notando che il rettore non sembrava avere alcun sospetto su di loro. «Noi nel frattempo le rubiamo solo un minuto. Vorremmo farle qualche domanda e vedere lo studio del professore, se è possibile».
Il rettore annuì, il pomo d’Adamo che saltellava su e giù.
«A proposito, ho visto degli agenti che hanno portato via qualche scatolone».
«Sono i fascicoli degli studenti iscritti ai corsi di Friedman. Non mi hanno detto perché gli servivano…».
Viola, che era rimasta in silenzio fino a quel momento, si avvicinò di un passo. «Lei crede che il professore potrebbe essere stato ucciso da qualche suo allievo?».
Malach fece cadere lo sguardo smarrito oltre il porticato e non rispose immediatamente. Poi si decise: «In molti ne parlavano male, per via della sua…».
«Per via della sua religione?», proseguì Henkel, ripensando alle poche battute scambiate con i ragazzi, pochi istanti prima. «Era un fedele del movimento raeliano, giusto?».
Il rettore sembrò scosso da quelle parole, improvvisamente però assunse un atteggiamento più deciso. «Non la definirei una religione!».
Henkel attese che proseguisse, ma l’anziano sembrò non voler approfondire l’argomento. «Volevate vedere il suo studio, no? Vi dispiace se parliamo mentre vi accompagno? Ho un appuntamento tra poco e mi viene di strada».
Henkel annuì e i tre cominciarono a camminare lentamente lungo un viale lastricato, contornato da alberi, siepi e fiorellini color limone.
Viola, che non aveva mai sentito parlare del movimento raeliano, si mordicchiò il labbro prima di chiedere spiegazioni, ma poi non resistette: «E come la definirebbe, quella… religione?»
«Un’accozzaglia di miscredenti che credono che gli Elohìm fossero degli extraterrestri», rispose secco Malach, allargando le braccia. Poi abbassò la voce, quasi avesse paura di essere sentito dagli studenti che camminavano nel viale. «Io non so se Friedman fosse davvero un seguace di quella specie di religione. Per me era liberissimo di credere che Yahweh fosse un extraterrestre, oppure che il popolo degli Elohìm ci abbia creato con l’ingegneria genetica. E non ho fatto due esempi a caso… quella gente lo crede davvero, sapete?»
«Vada avanti».
«Comunque, poteva credere ciò che voleva. Ma non doveva farlo qui! La Hebrew è l’università ebraica più importante al mondo».
«È stato ucciso a causa della sua religione, quindi?», sintetizzò la ragazza.
L’anziano allargò ancora le braccia, ma questa volta accompagnò il gesto scuotendo la testa, come un cane bagnato. «Abbiamo diciottomila studenti qui. Non si può mai dire cosa salta in testa alla gente!».
I tre camminarono per alcuni secondi senza che nessuno dicesse nulla.
Friedman era stato ucciso e, nonostante il rettore credesse che la causa dell’omicidio fosse la sua religione, Henkel la pensava diversamente. Non era un caso. Non poteva essere un caso. Era l’ennesimo partecipante a quella maledetta asta che veniva tolto di mezzo.
Nel frattempo i tre avevano raggiunto una costruzione circolare immersa tra oleandri e palme. Malach si avviò per una rampa di mattoni rossi e si fermò sotto un’insegna con la scritta BELGIUM HOUSE. «Lo studio del professore è in questo edificio…», annunciò, indicando i tre gradini che portavano all’ingresso.
«Posso farle un’altra domanda? Friedman faceva parte del Bible Project, giusto?», si informò Henkel, accarezzandosi il mento. «Era un insegnate di storia e mi pare di capire non fosse ebreo».
«È così», confermò Malach, mentre varcava la porta. «Era un esperto di sumeri. Come sapete la storia raccontata dalla Bibbia è per alcuni aspetti comune a quella degli altri popoli dell’antichità. Ritroviamo narrazioni simili nelle religioni indiane, in quelle nordiche o perfino nell’epopea di Gilgamesh».
«Quindi lo studio dei testi biblici lo affascinava, in qualche modo?», lo interrogò Viola, stupita che un uomo descritto come infedele potesse occuparsi di interpretare la Bibbia. Nel frattempo i tre attraversarono un salone circolare dall’aria elegante, con sculture, quadri alle pareti, un soffitto in legno e alcuni divanetti. Sembrava la hall di un hotel.
Il rettore indugiò, cercando di trovare le parole più giuste, ma poi sbottò: «Lui cercava nella Bibbia conferme alla sua religione! Cercava nei Testi indizi che confermassero le sue teorie…». Si bloccò di colpo, imboccando un lungo corridoio. «Eccoci, siamo arrivati».
I tre si fermarono davanti a una porta in noce identica a tutte le altre.
«Questo è lo studio di Friedman. La Belgium House, una delle più prestigiose pensioni del campus, gli aveva messo a disposizione uno degli alloggi. Lui lo aveva eletto a studio privato».
In quell’istante, un tonfo sordo attirò la sua attenzione. Veniva da dietro la porta.
Viola fu la più lesta ad afferrare la maniglia e nell’abbassarla si rese conto che era aperta. La serratura era stata manomessa.
Appena entrò, si trovò uno studio completamente a soqquadro. In fondo, lungo la parete, c’era però un’ombra, di media statura, che cercava di aprire la finestra. Si voltò verso Henkel e subito dopo sfondò il vetro con una coppa di marmo presa dalla scrivania.
Il rettore rimase immobile, senza fiato come se avesse visto un fantasma.
Gli eventi precipitarono con una rapidità impressionante: Viola cercò di avvicinarsi all’intruso ma questo fu più lesto. Scavalcò il parapetto, al di là dei vetri infranti, e fatti due passi saltò verso uno dei tubi pluviali che scorrevano lì accanto. Lo usò come una specie di pertica e in un istante scivolò al piano terra.
Henkel e Viola lo osservarono esterrefatti mentre saltava tra le siepi del giardino e si dirigeva verso il vialetto. Poi, senza rifletterci troppo, gli andarono dietro.