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Venezia. 12:40.

-09:19:48 alla deadline.

 

«L’hai trovato?», esclamò Henkel, mentre trafelato apriva la porta della camera d’hotel. Poi si bloccò di colpo, come il personaggio di un dipinto. La sua espressione si fece dura. «E lei cosa ci fa qui?»

«Non ti arrabbiare, Kevod…», si giustificò Elisabeth, seduta allo scrittoio davanti al suo portatile.

«Veramente sarei io a dover essere arrabbiata!», protestò Viola, in piedi, le braccia conserte e le spalle che sfioravano il ricco tendaggio della finestra. Era senza divisa e indossava un paio di jeans e un giubbotto di pelle da motociclista. «Credevo fossimo diventati amici, ma forse mi sbagliavo».

Henkel fece due passi sulla moquette. Si trovavano in un accogliente albergo affacciato sul Rio de San Moisé, poche stanze arredate in stile veneziano e ricavate da un’antica casa del Cinquecento.

«Non potevo andare all’appuntamento in compagnia di un carabiniere…», provò a spiegare lui, evidentemente a disagio.

«Oppure, più semplicemente, non ti fidavi di me», ribatté Viola, asciutta. Subito però cambiò espressione ed estrasse dalla giacca un foglietto piegato in quattro parti, che gli porse. «Però ti sbagliavi… avresti dovuto fidarti!».

Lui afferrò il biglietto, senza capire.

Fu Elisabeth a cercare di spiegarlo. «Questa mattina, poco dopo che mi hai telefonato tu, mi ha chiamato anche Viola», disse, staccando le mani dalla tastiera. «Mi ha raccontato di quanto è successo alla banca e del fatto che era stata appena liberata dalla sicurezza… Non le avrei rivelato quello che avevi in mente, ma poi mi ha detto di avere una pista importante. Mi è sembrato ragionevole farla venire».

«GenARTIF Inc.?», lesse lui sul foglio, con stupore. «Di cosa si tratta?»

«Ricordi il computer di Zonca?».

Henkel annuì. Non se ne erano mai separati, ma la sera prima lo avevano lasciato a Roma, nella centrale operativa dei carabinieri che lo stavano esaminando.

«Ci eravamo chiesti come avesse fatto un frate, votato alla povertà, a trovare il denaro per partecipare a una ricca asta da collezionisti».

L’agente vaticano si sedette sul giaciglio e accarezzò con la mano il raso del copriletto.

«…Eri stato tu a ipotizzare che nel suo computer ci potesse essere qualche indizio», proseguì Viola, a ruota libera. «Nella cronologia avevamo trovato l’accesso al sito di YourBank, ma non eravamo riusciti ad accedere alle informazioni…».

«Scommetto che i tuoi colleghi di Roma ci sono riusciti», la interruppe. «E cos’è questa GenARTIF

«La multinazionale cinese che ha dato a Zonca i soldi per partecipare all’asta. Non lo ha fatto direttamente, ma attraverso una controllata chiamata Client Management Service, con sede fiscale in Olanda. Però non è stato difficile arrivare fino a loro: sono una società importante, quotata a Wall Street e che si occupa di bioingegneria genetica… non passano inosservati».

«Ho fatto bene a dirle dove eravamo, no?», domandò Elisabeth, socchiudendo le labbra.

Henkel la ignorò. «Come fai a essere certa che quei soldi siano stati usati proprio per l’asta?», chiese ancora a Viola.

«Il giorno del bonifico degli olandesi, due milioni e trecentomila euro, Zonca ha girato una cifra di duecentomila a Paolini… la cauzione provvisoria».

L’agente vaticano rimase in silenzio per qualche istante, cercando di riflettere sugli elementi che aveva in mano. «Ricapitoliamo con calma», propose poi. «Zonca voleva quei rotoli, ma non aveva il denaro per comprarli. Qualcuno però era interessato a un’antica lettera di Bonifacio degli Aleramici custodita nel suo convento. Il domenicano l’ha rubata, l’ha venduta ai cinesi e ha incassato il prezzo. E con quei soldi ha partecipato all’asta».

«E se invece Zonca fosse semplicemente un prestanome, magari proprio dei cinesi?», ipotizzò Viola, passandosi l’indice sul fine sopracciglio. «Quella lettera, per quanto ben conservata, non vale tanti soldi… Forse consegnarla era solo un modo per guadagnarsi la loro fiducia».

«Ma poi i rotoli sono stati rubati dal Toro». Henkel proseguì il ragionamento. «I cinesi potevano essere interessati a recuperarli?»

«Eri tu che dicevi che il furto poteva essere stato commissionato da uno dei partecipanti all’asta. La GenARTIF è un partecipante occulto… uno a cui non abbiamo fatto visita!».

Henkel si alzò di scatto e andò ad appoggiarsi al muro di marmorino rosso, accanto a un superbo stucco veneziano. «Ammettiamo per assurdo che siano proprio loro ad avere rapito Stella, forse perché credevano che il ladro fosse in Vaticano. Hai detto che si occupano di genetica?»

Viola annuì.

«Ok, così avrebbe senso quello che stanno facendo…». Ripensò alle parole di Van Buuren, che aveva parlato di DNA, nucleasi e di un qualche tipo di esperimento. «Ma la domanda è: se la loro società si occupa di biogenetica, a cosa gli servono quattordici rotoli di papiro contenenti antichi libri della Bibbia…? Qualcosa non torna».

Si voltò di scatto verso Elisabeth, massaggiandosi il polso sinistro. Tra le dita si vedeva un grosso ematoma, quello che era rimasto al posto del suo smartwatch: se l’era strappato a Burano, pochi attimi prima di abbandonare la borsa con i rotoli. Immaginando che i rapitori non gli avrebbero consegnato Stella, poco prima di recarsi all’appuntamento aveva contattato Elisabeth per un piano alternativo: sapeva che la ragazza aveva esaminato il suo orologio e così le aveva chiesto se sarebbe stata in grado di rintracciarlo. E lei, con una risata, gli aveva risposto di sì.

«L’hai trovato?», si informò, avvicinandosi al computer.

Elisabeth scosse la testa. «Non ancora. Quando avevo esaminato lo smartwatch per la prima volta non pensavo che avrei dovuto rifarlo… per fortuna l’exploit che ho usato in aereo è utilizzabile anche via remoto».

«Quanto tempo ti serve per rintracciarlo?», tagliò corto lui.

«Se sono fortunata poco…».

Henkel scosse il capo. Non volle sapere quanto ci sarebbe voluto nel caso opposto… «Perché lo fai?», la interrogò invece. «Perché lo fate, tutte e due? Perché mi state aiutando?».

Viola si andò a sedere sul letto, appoggiandosi al guanciale e accavallando le gambe, come se volesse sembrare del tutto disinteressata alla domanda. Ma non era così. «Prima di questa mattina credevo fossimo diventati amici», gli rispose, scuotendo il capo. «E poi, ti sono debitrice: negli ultimi giorni mi hai salvato la vita almeno due o tre volte… senza contare che ho potuto scagionarmi soprattutto grazie a te!».

Henkel sorrise appena. Per un istante, soltanto uno, si sentì in colpa per non essersi fidato di Viola alla banca. Tentò di scacciare quel pensiero, rivolgendosi a Elisabeth: «E tu invece?», insistette. «Di sicuro non mi sei debitrice, e la tua non può essere solo curiosità per i manoscritti degli Illuminati».

Lei non rispose. Si limitò a girare il capo per un istante, gli occhi lucidi. Subito dopo però si reimmerse nello schermo del computer. Viola si alzò e le andò vicino, appoggiandole una mano sulla spalla.

«Nessuno metterebbe in pericolo la sua vita per semplice curiosità», rincarò la dose Henkel.

Ancora silenzio. Ma solo per un istante. «Lo faccio perché la religione ha rovinato la mia vita!», singhiozzò di colpo Elisabeth, la voce rotta dall’emozione. «Ha rovinato il mio passato e non voglio rovini anche il mio futuro!».

Viola le accarezzò la schiena, ma non disse nulla.

«…Il mio popolo è stato distrutto dalle lotte di religione», continuò Elisabeth. «E io ne ho avuto abbastanza».

«Sono sicuro che c’è dell’altro». Henkel addolcì la voce. Come Viola, aveva capito. «Non mi sembri una che rischia la vita per la pace nel mondo», scherzò.

«Lo fai per qualcuno in particolare, giusto?», la incalzò il sottotenente.

Elisabeth rimase immobile, poi alzò gli occhi lucidi verso Viola e annuì. «Io sono ebrea e lui musulmano… la nostra è un’unione impossibile. Se riuscissi a dimostrare che le tre religioni sono una grande bugia, niente potrebbe più dividerci».

Henkel inarcò un sopracciglio, tutt’altro che convinto, ma preferì non commentare. Un silenzio pieno d’imbarazzo si impadronì della piccola stanza d’hotel. Ma durò pochi istanti.

«Ci siamo!», dichiarò Elisabeth all’improvviso, lanciando un’occhiata al computer, che proprio in quel momento aveva emesso un sibilo appena percettibile. «Sono dentro».

L’agente dell’SSV scattò in piedi. «Sei entrata nel software dell’orologio? Dove si trova adesso?»

«Dalla triangolazione del segnale GPS sembrerebbe in volo, forse in elicottero, oppure è partito dall’aeroporto Marco Polo».

«Riesci a collegarti al sistema informatico dell’aeroporto?», si informò Henkel, certo che la ragazza ci sarebbe riuscita. «Cerchiamo di capire quanti aerei hanno avuto il permesso di decollare nell’ultima mezz’ora».

«Credo di sì, ma ci vorrà del tempo…». Mentre scuoteva appena il capo, si asciugò le ultime lacrime con la manica della camicia.

«Ok, non importa, provaci!», replicò Henkel. Poi afferrò il cellulare che la ragazza usava per connettersi a internet e compose un numero.

«Chi chiami?», gli domandò Viola.

«Abbiamo bisogno d’aiuto», annunciò lui, mentre dalla cornetta si udiva il segnale di libero. «E so a chi posso chiederlo!».