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Gerusalemme. Ora locale 19:20.
La giovane Elisheva “Elisabeth” Ravitz era davanti al portone del professor Friedman, rischiarato dai lampioni gialli del quartiere ebraico. Aveva il casco del motorino in mano e fissava la sua immagine riflessa nella vetrina di una bottega.
Era molto felice. Anche se ci sperava, era certa che il professore non l’avrebbe richiamata. Invece, a metà pomeriggio, mentre era incollata al suo inseparabile computer, il cellulare era squillato. La segretaria di Friedman le aveva fornito l’indirizzo, nella Città vecchia, e le aveva anche porto le scuse dell’insegnante.
Elisabeth sorrise e con l’indice giocherellò con le fini treccine, che la facevano assomigliare a un’africana dalla pelle pallida.
Mentre aspettava, si chiese se il professore fosse davvero un raeliano, come si diceva. Il movimento, fondato da Claude Vorilhon negli anni Settanta, raccoglieva seguaci in tutto il globo. I suoi fedeli credevano che la vita sulla Terra fosse stata creata da extraterrestri mediante l’ingegneria genetica.
Le lezioni di Friedman sui sumeri, descritti come troppo avanzati per il loro tempo, avevano alimentato quelle voci. Si mormorava che fosse un “senza Dio” e quella era stata la ragione principale che aveva spinto Elisabeth a seguire i suoi corsi.
Fin da ragazzina aveva avuto un rapporto conflittuale con il padre, rispettato rabbino di Gerusalemme. I princìpi dell’ebraismo le erano stati insegnati ancor prima che imparasse a parlare e a camminare. E come a volte accade, quando aveva raggiunto la maturità aveva cominciato a odiare tutto ciò che le avevano inculcato.
Era diventata una specie di ribelle, non solo nel vestire ma anche nel modo di comportarsi. Rappresentava l’esatto opposto di quanto la dottrina richiedeva a una giovane ebrea di buona famiglia, come lei. E quella era una delle ragioni per la quale i corsi di Friedman, che lasciavano intuire che Dio fosse una mera invenzione, l’avevano incuriosita.
All’inizio si era avvicinata alla materia più che altro convinta di fare un dispetto al genitore. Poi, però, quelle teorie che mescolavano tecnologia e storia l’avevano affascinata realmente. Di più, le avevano fornito un appiglio a cui aggrapparsi per poter riavere ciò che aveva perso a causa della religione…
«Avanti». La voce del professore arrivò attraverso il citofono, ma fu coperta dal chiacchiericcio che animava il vicolo. «Ultimo piano», riuscì a udire.
Il professore riagganciò il ricevitore e si voltò verso l’intruso.
«Falla entrare», ordinò, dall’altra parte della stanza, il Toro, che si infilò la Beretta nella cintura dei pantaloni.
Friedman trattenne il fiato. Che intenzioni aveva quel tizio? In che modo poteva sfruttare quel diversivo per guadagnare tempo prezioso?
Non ebbe il tempo di elaborare alcun piano, perché pochi istanti dopo la ragazza si presentò sul pianerottolo.
«Elisheva, che piacere», le disse con la porta semiaperta, il tono molto meno amichevole di quanto avrebbe voluto. Poi per convincerla a entrare aggiunse: «Non ho ancora avuto tempo di cercare la sua tesina. Venga pure».
La ragazza si passò l’indice sul brillantino del naso e varcò la soglia. Oltre la grande vetrata che dava sulla terrazza, sopra i tetti avvolti nella notte, svettava un minareto illuminato. Accanto alla finestra c’era un uomo con il pizzetto vestito di scuro. Le sorrise.
«Ho dimenticato il foglietto con il suo numero in ufficio, altrimenti l’avrei avvisata di passare un po’ più tardi». Il professore poggiò una mano sulla credenza accanto alla porta, vicino a un posacenere di marmo.
Lei annuì, masticando un chewing gum. Poi entrò nel soggiorno con il suo andamento dinoccolato. «Non c’è problema».
Mentre il professore la fissava in silenzio, si rese però conto che qualcosa non andava: lui sembrava in forte imbarazzo e il soggiorno era in disordine, con una sedia rovesciata e dei vetri per terra. Soprattutto, notò che la sua tesina, al contrario di quanto Friedman le aveva detto, era sul pavimento, accanto al tavolo.
«Verament…».
Non riuscì a finire la frase che l’insegnante scagliò il posacenere che stringeva nel pugno verso l’intruso.
Questi, per nulla sorpreso, si scostò. La vetrata dietro di lui si disintegrò, in un fragore di vetri infranti.
Per un istante Elisabeth rimase paralizzata. Non capì cosa stesse accadendo, ma una scarica di adrenalina la spinse a muoversi. Con una falcata fece un salto e si spostò alla sua sinistra, verso la cucina.
Il Toro emise un grugnito sordo. Estrasse la pistola e la puntò contro il professore, che però si gettò a terra, dietro al divano di pelle.
La ragazza, nel frattempo, raggiunse il bancone della cucina. Forse poteva trovare un coltello per difendersi, si era detta. Ma appena vide il corpo di una donna in un lago di sangue si bloccò di nuovo.
«Fermati, se non vuoi fare la stessa fine», la avvisò, in inglese, lo scimmione in abito scuro.
Per non cadere, lei si appoggiò con le mani al ripiano. Senza volerlo sfiorò il display di uno smartphone, che si accese.
«Torna qui, da brava», le consigliò ancora l’uomo, mentre con l’arma teneva sotto tiro il professore. «Non ho intenzione di farti del male».
Elisabeth non si mosse di un millimetro. Non sapeva cosa fare. Sotto di lei le scarpe da tennis erano impregnate del sangue appiccicoso di quella donna. Per non guardare il cadavere fece cadere lo sguardo sul cellulare, ma ciò che vide la colpì ancora di più: sul display c’era una fotografia, forse scattata quella mattina all’università. Il soggetto ritratto era lei, immortalata insieme al professore.
Nello stesso istante, preso da un impeto improvviso di coraggio, Friedman si alzò e fece un salto, scagliandosi contro l’intruso. Provò a disarmarlo, ma il suo tentativo durò soltanto un istante.
Un colpo sordo rimbombò nel locale, seguito da un silenzio gelido.
Il professore si allontanò di un passo, barcollante, gli occhi iniettati di rosso. Portò le mani allo stomaco e cadde all’indietro.
In quel momento il Toro alzò lo sguardo verso la ragazza. Ma lei non c’era più.
Elisabeth raccolse tutte le forze e spiccò un salto.
Dopo essersi ripresa la tesina – su cui il suo nome e i suoi recapiti erano stampati fin troppo in evidenza – era sgattaiolata nella terrazza attigua alla cucina. Da lì, con in mano il coltello che aveva trovato di fianco al cellulare, aveva scavalcato il parapetto e si era calata sul cornicione immerso nel buio.
L’edificio in cui sorgeva l’appartamento del professore era poco più alto degli altri, nella parte retrostante del Wohl Museum. Dalla sua posizione adesso riusciva a far spaziare lo sguardo dal quartiere cristiano, alla sua sinistra, fino alla spianata delle moschee dalla parte opposta. La Cupola della Roccia, con i suoi riflessi dorati, risplendeva come un transatlantico in mezzo all’oceano.
Elisabeth strinse al petto quella maledetta tesina. Era a causa sua se si trovava in quel guaio. Si appoggiò al muro e strisciò con la schiena. Il parapetto della terrazza era un metro sopra di lei. Se quel tizio, chiunque fosse, si fosse affacciato, nonostante l’oscurità l’avrebbe vista. Doveva assolutamente spostarsi da lì. E in fretta.
Guardò in basso: oltre i fili della luce, in un vicolo trafficato riuscì a scorgere due militari di guardia. Non avrebbe mai potuto raggiungerli. C’erano muri scoscesi, archi tesi sopra la strada e tetti da attraversare.
In quell’istante udì un tonfo, sopra la sua testa. Rimase immobile, in attesa che il tizio si affacciasse. Una stilla di sudore le solcò la fronte. Aspettò l’inevitabile, i muscoli tesi per la paura. Ma non successe nulla.
Non poteva restare lì. Fece un altro passo sul cornicione, in direzione della chiesa di San Marco, e raggiunse lo spigolo del palazzo. Per un istante, un piede perse aderenza, tuttavia, buttando il peso all’indietro riuscì a riprendere l’equilibrio. Il coltello le cadde di mano. In lontananza si udivano voci e rumori di motorini. Oltre il buio, il rintocco di una campana.
«Cazzo», mormorò fra sé.
Alzò lo sguardo e notò, tra i tetti circostanti uno spazio apparentemente piano. Era a circa due metri di distanza, in un edificio sulla parte opposta di un vicolo molto stretto. Nel buio non ne era certa, ma le pareva che poco sotto al tetto, ricoperto di coppi, ci fosse una specie di terrazzo.
Raccolse tutte le sue forze e si molleggiò sulle gambe. Saltare da ferma, da un palazzo all’altro, non era la scelta più sensata, soprattutto a dieci metri di altezza. Ma era sempre meglio che morire con una pallottola in testa.
Per un istante chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Poi spiccò un salto con tutta la rabbia che aveva in corpo.
Il volo le parve interminabile, ma alla fine sotto le sue All Star si materializzò una superficie dura. Rotolò per alcuni metri e come aveva creduto si ritrovò in un terrazzo, completamente al buio.
Si alzò ansimante, il capo rivolto verso il palazzo del professor Friedman. Le finestre erano illuminate e quell’uomo camminava lentamente verso il ballatoio. Era di spalle e sembrava stesse trascinando un grosso sacco.
“No”. Si rese conto che non era affatto un sacco: era il corpo del professore.
Elisabeth trattenne il fiato quando vide l’energumeno sollevare di peso Friedman e scaraventarlo di sotto.