15

 

 

 

 

 

Firenze. 07:20.

 

Viola Puccini e il capitano Aruta si presentarono a casa di Atilio García Paolini di buon’ora.

L’uomo, nipote dello storico fondatore della prestigiosa casa d’aste fiorentina, abitava in borgo San Jacopo, poco distante da Ponte Vecchio. Era una via stretta e buia, delimitata da imponenti torri medioevali e edifici dall’aspetto austero.

I due carabinieri raggiunsero il palazzo a piedi, dopo aver parcheggiato la gazzella sul marciapiede all’incrocio con via Dè Belfredelli.

«Buongiorno», esordì Aruta, sollevando il berretto con la fiamma. «Sono il capitano Fabio Aruta e questa è la mia collega, sottotenente Puccini del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale. Grazie per averci ricevuto così presto».

Paolini sorrise e li invitò a entrare. Indossava un completo blu impeccabile e il viso, squadrato e con una mandibola prominente, era abbronzato e perfettamente rasato. «Ho già parlato con i vostri colleghi a lungo nelle scorse ore… quello che è successo è stato terribile. Mi sento responsabile, in qualche modo».

«L’attentato di ieri mattina purtroppo è sulle pagine di tutti i giornali», confermò il capitano, con un’espressione di rammarico. «Ma noi siamo qui per un motivo differente».

«La documentazione dei reperti rubati era a posto, se è questo che mi state domandando». Mentre parlava fece cenno ai due militari di accomodarsi su un divano poco distante dall’ingresso. Era una stanza molto luminosa. Dalle finestre si intravedeva la cupola del Brunelleschi rischiarata da un raggio di sole che si faceva largo tra le nuvole. «Sono reperti rinvenuti all’estero e importati legalmente. La sovrintendenza mi ha fornito tutte le necessarie autorizzazioni per la temporanea importazione».

Aruta sorrise. Sapeva che per un gallerista vendere oggetti di quel tipo poteva comportare alcune difficoltà burocratiche. La legge in materia di beni culturali era molto rigida e impediva di esportare i reperti rinvenuti nel territorio italiano. Quella era la ragione per la quale Paolini aveva sottolineato che i rotoli erano stati trovati all’estero. «Non si preoccupi, sono certo che, come lei dice, è tutto in ordine», lo rassicurò il capitano. «Il motivo per cui siamo venuti qui è quest’uomo. Se lo ricorda?». Gli mostrò una fotografia di Lamberto Zonca, un fotogramma ripreso dalle telecamere della stazione.

Paolini tirò un sospiro di sollievo, l’immagine incollata davanti al suo naso. «Sì, è un domenicano di Bologna. Era molto interessato alla nostra asta». Annuì in modo convinto, prima fissando Aruta e poi guardando Viola.

«Cosa ci può dire di lui?», chiese ancora il capitano, sedendosi di fronte al padrone di casa e accavallando le gambe.

«Non molto… ha visionato i rotoli alcuni giorni prima dell’incanto e poi, come gli altri, ha presentato i documenti per partecipare».

«Le era sembrato un esperto?». Viola, che era rimasta in piedi, quasi in disparte, si avvicinò di un passo.

«Decisamente», rispose Paolini. «Voleva sapere la provenienza esatta, il nome del proprietario, quali esami sono stati fatti per accertare la datazione del reperto».

«Lei cosa ha risposto?»

«La verità: che non conosco il proprietario dei rotoli e che la parte venditrice è rappresentata da uno studio legale svizzero. I papiri sono stati rinvenuti circa un anno fa in Islanda, sepolti chissà dove sotto un ghiacciaio».

«Manoscritti degli Illuminati: si trattava di testi biblici, giusto?», insistette Viola. «Lei ha avuto modo di leggerli? Cosa avevano di tanto particolare da giustificare un furto così sanguinoso?».

Paolini fece spallucce. «Ovviamente io non sono un esperto. Tuttavia sono stato l’unico a poterli visionare, oltre ai potenziali acquirenti, per volere del proprietario. Le posso dire che erano quattordici rotoli di papiro scritti in ebraico e greco, probabilmente ben più antichi dei manoscritti del Mar Morto. Sul contenuto non credo di poterle fornire grandi informazioni…». Si passò la mano sudata sui pantaloni e poi proseguì. «Ho fotografato personalmente alcuni passaggi, ma immagino che anche per i biblisti più preparati la loro comprensione avrebbe richiesto mesi, se non anni…».

«Ha avuto modo di preparare l’elenco che le ho chiesto al telefono?», incalzò il capitano, riportando il discorso su ciò che gli interessava. Usò un tono insofferente, quasi seccato che Viola si fosse intromessa.

«Certo». L’uomo estrasse dalla giacca un foglio piegato in quattro parti e lo porse alla giovane, che gli era più vicina. «Lì ci sono tutti i nomi, a cominciare dal vostro frate. Li ho visti solo un paio di volte, ma me li ricordo bene: c’era un uomo d’affari russo, un tizio israeliano, una nobildonna che affermava di essere inglese ma che aveva un lieve accento americano…».

«La procedura scelta per l’asta è stata un po’ particolare», lo interruppe Aruta. «In televisione ci hanno abituato a vedere rialzi fatti all’ultimo istante, palette che si alzano improvvisamente… cose un po’ scenografiche, insomma. Perché invece avete scelto questo sistema di offerta privata?»

«Offerta segreta», lo corresse Paolini, accavallando le gambe. «Non è una procedura così anomala: la si usa per lo più in ambito legale. Siamo nei tempi di eBay e chiunque può giocare al rialzo. Noi cerchiamo di fare qualcosa di più particolare. E comunque, visto che i partecipanti devono versare una cauzione, abbiamo il vantaggio di conoscere prima l’identità degli offerenti».

«In effetti, se fosse stata un’asta tradizionale non avremmo avuto questo elenco… una bella fortuna», concordò Viola, leggendo la lista. I nomi e gli indirizzi erano incolonnati ordinatamente, con la data di presentazione dei documenti. «Ho un’altra domanda: fra’ Zonca le ha mai mostrato questa missiva?». Mostrò la copia della lettera scritta in latino rinvenuta accanto al corpo del domenicano.

«Assolutamente no». Paolini scosse la testa ripetutamente. Apparve convinto. «Credete che quel frate sia coinvolto in qualche modo nel furto?»

«Stiamo raccogliendo elementi per permettere al pubblico ministero di fare delle ipotesi più accurate… è troppo presto per dirlo». Il capitano si alzò in piedi. «Un’ultima domanda. Lei era assicurato, giusto?».

 

Pochi minuti dopo, i due militari uscirono dal palazzo e si diressero verso l’auto, parcheggiata all’ombra di un oleandro.

Nessuno dei due notò il grosso scooter che si era fermato all’inizio di borgo San Jacopo. Il guidatore, un uomo muscoloso e tarchiato, con un vistoso crocifisso al collo, si tolse il casco e sbirciò verso le finestre di Paolini.