47

 

 

 

 

 

Gerusalemme Est. Ora locale 11:55.

-35:04:25 alla deadline.

 

Il quartiere di Issawiya, abitato per lo più da palestinesi, è uno dei più popolari di Gerusalemme. La maggior parte delle famiglie, non potendo pagare i salati permessi di costruzione, vive in abitazioni abusive che il Comune sta progressivamente abbattendo.

E le ruspe, intente a demolire un compound di due piani, erano al lavoro anche quella mattina, quando Andreas Henkel e Viola Puccini scesero da un pullman. I due si guardarono attorno spaesati: c’erano voluti pochi minuti per arrivare dai fasti ricchi di storia del centro a una delle zone più povere della città.

Il clangore dei motori diesel rimbombava sulle facciate dei palazzi ancora in piedi e di tanto in tanto si sentivano urla di donne e schiamazzi. Faceva caldo. La strada su cui si incamminarono, larga e dritta, era interrotta da buche e da arbusti che emergevano dall’asfalto. Ai lati, in più punti, si vedevano macerie di mattoni color sabbia dai quali emergevano ferri arrugginiti.

«La ragazza dovrebbe abitare da quella parte», comunicò Henkel, fissando una mappa tascabile. «Fra tre isolati».

Davanti a loro adesso, accanto a un prefabbricato di lamiera, si stagliava un cumulo di legname accatastato e dei mattoni. Sullo sfondo, avvolto da una ragnatela di cavi elettrici, si notava il muro di un edificio ancora in piedi.

«Guarda», gli fece notare Viola, bloccando l’agente dell’SSV con un braccio.

«Che cosa?», domandò Henkel, augurandosi che lei non avesse improvvise crisi di nervi. Nonostante solo un’ora prima si fosse trovata in pericolo di vita sembrava non aver risentito dell’accaduto. Ma la conosceva troppo poco per sapere quali potevano essere le sue reazioni a simili sollecitazioni.

«Il motorino. Davanti al garage». La ragazza indicò con l’indice in direzione di un edificio fatiscente poco distante. «Non ti sembr…».

In quell’istante, da dietro un cumulo di cemento sbucò una giovane, con due computer portatili in mano.

 

Elisabeth Ravitz aveva paura.

Dopo la sera precedente, anche quella mattina aveva rischiato di essere uccisa.

Come aveva temuto, l’uomo con il pizzetto era andato nello studio di Aaron Friedman e aveva trovato il suo numero di telefono. Era solo questione di tempo prima che arrivasse anche a casa sua.

Con il magone, si voltò verso il portone. Aveva comprato quell’appartamento un anno prima, insieme al suo fidanzato. Era da poco andata via di casa e le era sembrato un ottimo affare: centonovantamila shekel, pochissimi, se paragonati ai seicentomila che servivano a Beit Hanina o a Shuafat. Certo, la costruzione era abusiva, come tutte in quella zona, ma le avevano garantito che le carte si sarebbero sistemate.

Ovviamente non era andata così: Israele, per far posto a nuovi insediamenti ebraici, aveva deciso di confiscare le case di quindicimila palestinesi e la municipalità aveva notificato anche a lei un ordine di abbattimento. Elisabeth, che fino ad allora aveva vissuto nell’agio, protetta dalla sua influente famiglia, non l’aveva presa bene. Peggio di lei però l’aveva presa il suo fidanzato, che in quell’alloggio aveva investito i risparmi di una vita.

Quella che era cominciata come una favola alla Giulietta e Romeo, un’unione impossibile tra un palestinese e un’israeliana, si era così disintegrata come una bottiglia sugli scogli. Walid, forse anche prendendo la questione della casa come scusa, aveva sbattuto la porta e se n’era tornato a Gaza.

E adesso lei, che lo amava ancora, era nei guai e proprio a causa sua: doveva scappare da Issawiya il più in fretta possibile, prima che il gigante che aveva ucciso il professore venisse a cercarla.

Mentre camminava sul marciapiede, diretta al motorino, il cuore le balzò in gola. Per un istante le mancò il fiato, bianca dalla paura.

Si bloccò di colpo, fingendo di armeggiare con il portatile che aveva nello zaino. Poi lanciò un’occhiata oltre un cumulo di macerie: c’era una donna. Aveva capelli corti e neri e teneva le mani larghe, come per rassicurarla sul fatto che non avesse armi con sé. Però era lei, quella che l’aveva inseguita fuori dal campus.

Per un istante fu indecisa sul da farsi… Ma solo per un istante: decise che non le interessava sapere chi era, si infilò lo zaino in spalla e accelerò il passo.

La donna, dall’altra parte della strada, si agitò, gesticolando concitatamente. Urlò qualcosa, ma nella confusione delle ruspe Elisabeth non riuscì a udirla.

Raggiunse il motorino in pochi istanti, si mise a cavalcioni e provò ad avviarlo.

Ma non ci riuscì, perché un uomo che non aveva mai visto appoggiò la sua mano nerboruta sul manubrio.

«Vai da qualche parte?», ghignò Henkel, beffardo.

 

Quattro minuti più tardi, Viola e Henkel avevano riportato la ragazza nel suo monolocale l’avevano legata a una sedia con del nastro isolante. In un altro frangente, il sottotenente non avrebbe accettato simili metodi, tuttavia le circostanze l’avevano convinta ad assecondare l’agente del Vaticano.

«Chi siete?», singhiozzò Elisabeth in ebraico.

Henkel si spostò di un passo fino alla finestra. Era chiusa, e una tenue luce giallognola filtrava attraverso le imposte. Nella penombra riusciva a distinguere meglio l’arredamento della stanza: un tavolino rettangolare, quattro sedie e un lavandino colmo di stoviglie da lavare. Ovunque guardasse, per terra, sulla credenza, perfino sul letto sfatto vedeva parti di computer, case e monitor.

«Perché sei scappata dallo studio di Friedman?», le domandò l’agente dell’SSV in inglese, per permettere anche a Viola di comprendere la conversazione.

«Chi siete?», ripeté ancora la giovane, questa volta nella stessa lingua usata da Henkel. Il mascara nero sugli occhi era sbavato e una lacrima le solcava la guancia. «Io non ho fatto nulla».

Viola finse di non ascoltare e si mise ad armeggiare con lo zaino della ragazza. Estrasse due portatili e un fascicoletto rilegato, una specie di manoscritto. Sulla prima pagina c’era un nome e un titolo che attirò subito la sua attenzione: The godless bible, “La bibbia senza Dio”.

«Perché quell’uomo ti seguiva?», Henkel provò con un’altra domanda. «Quando sei fuggita dal campus, un grosso Hummer si è messo alle tue calcagna. Se non ci fossimo stati noi adesso saresti sul tavolo dell’obitorio».

Elisabeth alzò lo sguardo, perplessa. In effetti quell’uomo aveva ragione: se non fosse stato per il furgone FedEx, sul quale aveva visto salire la donna che le stava di fronte, forse l’assassino di Friedman l’avrebbe acciuffata.

«Cosa voleva da te? La stessa cosa che cercavi nello studio di Friedman?».

L’unica risposta fu un singulto soffocato in gola.

Viola scosse la testa. Era evidente che con quella strategia Andreas non avrebbe ottenuto nulla. Doveva intervenire. «Elisheva, ricominciamo. Vuoi?», chiese accondiscendente, passando l’indice sul nome stampato sulla tesina.

«Elisabeth…», la rimbrottò lei.

«Cosa?»

«Mi chiamo Elisabeth… solo mio padre mi chiama Elisheva».

«Ok, Elisabeth», sorrise Viola, avvicinandosi a lei e sciogliendole i polsi. «Forse abbiamo cominciato con il piede sbagliato. Dopotutto, però, come diceva il mio collega, siamo stati noi a salvarti…».

Lei fece cadere lo sguardo su Henkel. Annuì, ma nel frattempo si domandò se aveva abbastanza spazio per riuscire a raggiungere la porta.

L’agente dell’SSV, quasi le avesse letto nel pensiero, si spostò e andò ad appoggiare le spalle sullo stipite.

«Mi vuoi parlare di questo documento? Ha a che fare con la Bibbia. È questo che ti collega a Friedman?», mentre faceva quella domanda cercava un possibile filo conduttore tra i rotoli rubati, l’asta e quella giovane dalle treccine rasta.

Lei rimase ancora in silenzio, ma subito dopo annuì.

«Ok! E l’uomo sull’Hummer voleva la tua tesina?».

Elisabeth fu sul punto di dire qualcosa, poi però si bloccò, indecisa se fidarsi dei due stranieri.

«Senti… Non abbiamo tempo da perdere», ruggì Henkel, perentorio. «Noi siamo dalla tua parte, ma l’altro tizio no. E ti verrà a cercare se non parli alla svelta».

«No», rispose secca Elisabeth. «No. Non cercava la mia tesina. Cercava il mio numero di telefono… che l’avrebbe portato qui».

Viola accennò un tiepido sorriso e prese a sfogliare il documento.

«Quel fottuto yankee mi vuole ammazzare». A quelle parole una nuova lacrima sgorgò dagli occhi di Elisabeth, che dopo un singhiozzo sussurrò appena: «L’ho visto che uccideva il professore… ecco tutto!».

«Non sa nulla dell’asta!», constatò Henkel, scuotendo il capo. «È una pista morta, dobbiamo contattare l’ultimo partecipante. Il Toro andrà sicuramente da lui».

Viola si alzò in piedi e mostrò una pagina sul documento scritto dalla ragazza. «Se Elisabeth l’ha visto uccidere Friedman è in pericolo anche lei!».

Lui sospirò. «Forse. Ma è più probabile che il Toro cerchi di portare a termine la sua missione. Ho la sensazione che abbia fretta». Tacque, come se non fosse del tutto convinto del ragionamento. «Stanare la ragazza gli farebbe perdere tempo: se consideriamo le tempistiche con cui sta compiendo i suoi delitti, direi che è più probabile che vada ad Atene. Lasciamola qui e andiamocene».

«Ehi… Io vi sto ascoltando!», improvvisamente la giovane parve riacquistare un po’ di grinta. «E se invece tornasse a cercarmi? Non voglio esserci quando quel tizio arriverà».

«Vai alla polizia, allora!», le propose Henkel. «E fai finta di non averci mai visto».

«Aspetta, guarda qui», intervenne Viola, con il dito sulla tesina. «“Traduzione letterale della Bibbia”», lesse con calma. «Non è lo stesso tipo di traduzione che faceva Zonca?»

«E allora?»

«E se potesse esserci utile a capire il movente del Toro, il motivo per il quale sta uccidendo chi è venuto a contatto con quei rotoli?».

Henkel non replicò, ma si limitò a estrarre la brochure dell’asta da Paolini, che ancora teneva in tasca. «Cosa sai di questi rotoli? Perché Friedman li voleva acquistare?».

In un istante il viso della ragazza si illuminò, come rischiarato da un raggio di sole. «Le guerre di Yahweh?», mormorò incredula. «Allora avevo ragione…».