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Regione dell’Azerbaigian orientale, Nord dell’Iran. Venti minuti dopo.

-65:34:59 alla deadline.

 

Il Lockheed C-130 Hercules con il simbolo delle Nazioni Unite sulla fusoliera toccò il suolo alle prime luci dell’alba. Era una mattina fredda e nebbiosa.

Rallentò, sobbalzando sulla pista in terra battuta e arrestò la sua corsa nei pressi di un edificio tozzo di mattoni bianchi. Davanti sostavano alcuni soldati iraniani a mitra spianato e tre furgoni con il motore acceso.

«I documenti sono in regola», dichiarò un funzionario in uniforme, un paio di baffetti da moschettiere. Teneva in mano una serie di fascicoli e urlava per sovrastare il clangore delle quattro turboeliche. «Dovrete passare a sud di Marand. Il terremoto ha reso inservibile la strada 21, ma la 14 dicono che sia percorribile, almeno per un tratto».

«Grazie molte», rispose in arabo la donna, il vento che le scompigliava i capelli. Aveva gli occhi a mandorla, la pelle color latte e le gote arrossate. Nonostante il velo, qualche ciocca nera le svolazzava sulla fronte. «Apprezziamo la vostra collaborazione».

Il funzionario sorrise sguaiatamente e si toccò la tasca. «Anche noi!». La fissò di sottecchi e si allontanò verso i soldati facendo grandi gesti con la mano.

Si trovavano su una vecchia pista militare nella zona Nord-Ovest del Paese, non lontano dalle paludi dell’Adji Chay. Il territorio circostante era arido e montagnoso. Sullo sfondo, il massiccio principale del Mishodagh No Hunting era innevato. Dalla parte opposta si intravedeva il lago Urmia, che faceva da contraltare al verde monte Sahand.

Mentre i portelloni dell’Hercules venivano aperti, tre Toyota Land Cruiser, con il logo UN sulle fiancate, si mossero.

La donna attese in piedi, le braccia conserte per proteggersi dal freddo. Dopo alcuni secondi individuò, sulla scaletta del velivolo, Herman Van Buuren, che scese velocemente e la raggiunse sulla pista.

«Siamo in ritardo!», lo assalì aggressiva, appena lui le fu davanti. «Sono passate quasi sei ore».

«Abbiamo dovuto evitare lo spazio aereo siriano e siamo stati costretti a deviare su Tabriz», si giustificò lo scienziato. «Siamo stati fortunati ad avere avuto le autorizzazioni per questo scalo».

«Io non la chiamo fortuna…», grugnì lei, stringendosi nelle spalle. «Quel dannato terremoto ci è costato cinquantamila dollari in tangenti, senza contare i danni al Sito A».

«Quando sarà nuovamente operativa la nostra pista d’atterraggio?», si informò Van Buuren, sfinito dal viaggio.

«La base ha subito molti danni, ma contiamo di ripristinare almeno il gate in pochi giorni».

«Gli hangar? Il Giardino?»

«La struttura è antisismica. Lì nessun danno!», tagliò corto lei.

Nel frattempo, tre passeggere avvolte in pesanti coperte furono fatte scendere dall’aereo e scortate fino alle auto.

«Ci siamo?», domandò la donna, fissando la scena come se fosse un documentario in TV.

Van Buuren si voltò e bisbigliò qualcosa alla radio. Infine annuì. «Questa volta ne abbiamo tre!».

«Bene. Andiamo. Non c’è tempo da perdere».

 

Circa un’ora più tardi, Stella Rosati era sul sedile posteriore di una delle Toyota lanciate a gran velocità su una strada di montagna.

Prima di salire sulla macchina, ai piedi del velivolo, si era guardata attorno, ma non era riuscita a capire dove si trovasse. A giudicare dal freddo e dai cartelli scritti in arabo, immaginò di essere tra le alture dell’Iran o dell’Afghanistan.

L’uomo che l’aveva rapita nell’albergo di Lugano e che poi l’aveva drogata sedeva davanti, sul sedile del passeggero. Accanto a lei invece c’era una ragazza con lo sguardo perso nel vuoto, che non aveva mai visto.

«Quanto ci vorrà?», si informò lo scienziato rivolto all’autista, il tono preoccupato.

Il terremoto del giorno precedente, il cui epicentro era stato registrato nel Sud-Est della Turchia, era stato uno dei più violenti della storia. Le vittime civili si diceva fossero svariate migliaia, così come gli sfollati, ma ciò che più gli interessava erano i danni alle infrastrutture. Molte delle vie di comunicazione locali erano state danneggiate e con loro anche la pista di atterraggio all’interno della base. Così erano stati costretti a modificare i piani di volo. Erano atterrati a molti chilometri di distanza e stavano raggiungendo il Sito A in auto.

Il guidatore si voltò verso di lui senza parlare. Era un omone con un turbante sul capo, una folta barba nera e gli occhi grigi. Osservò Van Buuren per alcuni secondi e poi bisbigliò qualcosa.

Stella non lo comprese. Parlava in una specie di inglese con forte accento mediorientale, ma il frastuono del motore le impedì di sentire.

L’olandese, in ogni caso, nonostante i suoi modi distinti parve contrariato. Picchiettò sull’orologio e tornò a fissare una mappa sul suo tablet.

Cosa ci faceva lì?, si domandò la ragazza. Per quanto si sforzasse di immaginarlo, non riusciva a trovare nessuna spiegazione vagamente razionale.

Era stata rapita, ormai era evidente. Ma per quale ragione? E perché l’avevano portata tra quei monti innevati?

Provò a fare mente locale. Durante il viaggio in aereo era stata quasi sempre sedata e incosciente. Riusciva a ricordare uno strano macchinario e un fischio ripetuto, simile a quello dell’elettrocardiogramma. Ricordava anche il rombo dei motori dell’aereo e il viso di Henkel ripreso da una telecamera. Ma era successo molte ore prima, non era in grado di quantificarne il numero con precisione.

Si voltò verso la sua compagna di sventura. Era una ragazza sui vent’anni, bionda e con la testa che danzava al ritmo delle buche. Aveva gli occhi spalancati, ma sembrava incosciente. Come lei, era collegata attraverso un tubicino azzurro a uno strano marchingegno sistemato nel baule.

Mentre fissava il piccolo catetere che le pendeva dalla mano destra, l’auto sterzò bruscamente e l’autista lasciò la strada principale. Si inerpicò su una mulattiera sul fianco di una montagna e diede gas, seguito dalle altre due vetture.

E lì accadde l’imprevedibile.

La strada, che piegava a sinistra, d’un tratto scomparve letteralmente da sotto le ruote dell’auto. Gli pneumatici della Toyota persero aderenza e il veicolo, in bilico sulla vallata, sbandò ripetutamente. Voltò prima a sinistra, verso il costone di roccia, e poi a destra, puntando il baratro sottostante.

Per alcuni istanti parve che stesse letteralmente librandosi nell’aria. Poi, quando finalmente l’avantreno ritrovò il terreno, diverse decine di metri più sotto, uno scossone fece sobbalzare gli occupanti.

Ma non era finita: dopo alcuni interminabili secondi, in cui Stella ebbe l’impressione di trovarsi sospesa su un filo, l’auto incontrò un nuovo ostacolo. La Toyota s’impennò e nel tempo di un respiro si ribaltò completamente, andando ad arrestare la sua corsa contro alcuni rovi.

Gli airbag esplosero contemporaneamente e il clacson cominciò a suonare.