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Gerusalemme, 23 ottobre. Ora locale 18:45.
Con il buio, le tinte color sabbia della città si trasformavano in luci e colori. Tutto si mescolava in un andirivieni di persone intente a fare spese nelle botteghe e a bere nei bar. I rintocchi delle campane cristiane, mescolati alle voci dei muezzin, scemavano poco a poco, sovrastati dalla musica dal vivo di pub e locali.
Come tutti i giovedì sera, dopo che le bancarelle del mercato erano state chiuse, nella zona di Mahane Yehuda cominciavano i festeggiamenti per l’arrivo del weekend.
Il professor Aaron Friedman, a bordo della sua BMW x6, superò la parte ovest e si diresse verso la Città vecchia. Abitava nel quartiere ebraico, poco distante dal museo archeologico, e per raggiungere il suo appartamento doveva entrare con l’auto all’interno delle mura. Lo fece dall’ingresso del Dung Gate e salì verso casa. Lasciò l’auto nel solito parcheggio nei pressi del “Controllo”, fece un breve tratto a piedi e imboccò le scale del palazzo.
Era sfinito e, se ripensava a quanto gli era accaduto negli ultimi due giorni, si stupiva di essere tornato così presto alla normalità.
«Ma la normalità aiuta a dimenticare», gli aveva suggerito il suo strizzacervelli. «Un evento di quel tipo non si cancella con un colpo di spugna. Rimane sempre dentro di noi. Quello che possiamo fare è dedicarci ad altro, vivere normalmente, nella speranza che prima o poi il suo ricordo si annebbi».
E così aveva fatto. Il frastuono dell’esplosione nella casa d’aste, l’odore di calcinacci, il fumo e le urla erano ancora davanti ai suoi occhi. Tuttavia doveva cercare di passare oltre. Certo, non sarebbe stato facile, soprattutto se quegli idioti dei servizi segreti, spalleggiati dagli americani, non avessero smesso di porgli domande… Cosa che avevano fatto fin dal suo ritorno in patria.
In ogni caso sapeva di essere stato fortunato e il merito era tutto del suo amico Lamberto Zonca. Era stato il frate, dopo la prima bomba, che lo aveva condotto, insieme a uno sparuto gruppo di persone, lontano dalla sala. Poi il domenicano era caduto, fortunatamente senza conseguenze.
“Se quei papiri sono quello che credo…”, gli aveva scritto via email proprio Zonca, alcuni giorni prima, “riuscire a studiarli farebbe fare un passo da gigante al progetto”.
Friedman, che faceva parte del Bible Project in qualità di storico esperto delle religioni antiche, aveva subito compreso di cosa si trattasse. Soprattutto aveva capito che quei documenti potevano essere utili anche per meglio comprendere i libri di Rael e le radici della sua nuova religione.
«Non sappiamo in quanti parteciperanno», aveva proseguito il frate, quando si erano sentiti al telefono. «Ma se presentiamo due offerte avremo maggiori possibilità di aggiudicarci l’asta».
Il professore non era abituato ad acquisire i testi su cui studiava in quel modo, ma l’importanza dei documenti era tale che si convinse immediatamente. Dopotutto, se i rotoli fossero stati comprati da un collezionista, difficilmente avrebbero potuto esaminarli come meritavano.
Aveva quindi messo mano al suo portafoglio personale, chiedendosi come Zonca avesse potuto fare lo stesso, e aveva staccato un cospicuo assegno per la cauzione.
Infilò le chiavi nella serratura, digitò il codice di sicurezza e aprì la porta sul soggiorno in penombra. Dalle finestre affacciate sulla terrazza penetravano le luci dorate della vallata sottostante. Sulla sinistra, tra i tetti, si scorgeva il minareto illuminato della moschea di al-Aqsa.
Aveva poco tempo. Doveva farsi una doccia e prepararsi per andare a teatro. Prima però aveva promesso di restituire a quell’allieva la sua tesina.
«Bathsheva?», chiamò ad alta voce. Era la sua governante e da quando sua moglie era morta, quattro anni prima, si occupava di lui. «Bathsheva?».
Nessuna risposta.
Accese la grande TV a parete e come d’abitudine sintonizzò CNN International, il canale di informazioni in lingua inglese. Si vedeva la mappa degli Stati Uniti con una serie di puntini rossi. Il titolo, a caratteri cubitali, diceva: “Missing”. Per un istante si fermò ad ascoltare, ma quando capì che si trattava dei soliti servizi sensazionalistici sulle persone scomparse smise di prestare attenzione. Si voltò, calpestò il parquet di bambù del soggiorno, recentemente ristrutturato dal designer Piero Lissoni, e si diresse verso lo studio. Bathsheva non era neanche lì. Ne approfittò per prendere il fascicoletto rilegato sistemato sulla scrivania e tornò nel soggiorno.
Erano quasi le sette. Da lì a pochi minuti la ragazza sarebbe passata a ritirare la tesina e avrebbe voluto avvisare la domestica. Strano che non fosse in casa.
Andò verso la cucina. Anche lì non c’era. La stanza era in ordine, ma si vedevano alcuni vetri, forse di un bicchiere, sparsi per terra. Sbuffò e si abbassò per raccoglierli. E in quell’istante rimase folgorato: una mano sbucava da dietro il bancone.
Fece il giro, ansimante, e la vide: Bathsheva era supina, gli occhi spalancati e il viso immobilizzato in un’espressione contrita. Il collo era lacerato da orecchio a orecchio e una pozza di sangue si allargava lentamente sul pavimento.
Friedman rimase immobile, senza respirare.
Se il sangue stava ancora scorrendo, la donna doveva essere stata sgozzata pochi attimi prima.
D’istinto si voltò e la paura si materializzò nella figura di un uomo, di fronte a lui. Era un gorilla dalla pelle abbronzata, tutto muscoli, con indosso un abito nero. Al collo portava un vistoso crocifisso d’oro e lo sguardo era apparentemente inespressivo.
«Chi…», provò a dire, ma senza che le sue corde vocali riuscissero a emettere altri suoni.
Non lo aveva mai visto.
Alzò le mani, in segno di resa. Nel frattempo provò a indietreggiare, strisciando i piedi sul pavimento, ma incespicò e cadde all’indietro. La tesina gli sfuggì di mano e scivolò lontano.
Il Toro lo contemplò, un’espressione beffarda. Dette l’impressione di assaporare il momento come un gatto che contempla un topolino prima di afferrarlo. Appoggiò il suo smartphone al bancone della cucina e con un gesto teatrale gli mise di fianco il coltello insanguinato. Poi fece un passo verso di lui. «Non abbia fretta professore», grugnì, mentre una riga verticale gli si disegnava sulla fronte.
Lo esaminò bene, per essere certo che fosse davvero lui. Non aveva mai visto Friedman fino a qualche ora prima, quando la sua fotografia gli era stata spedita via email sul cellulare. «Si metta comodo», ordinò poi, un sorriso di ghiaccio dipinto sul volto. «Non abbiamo nessuna fretta».