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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. Pochi minuti dopo.
-27:50:00 alla deadline.
Stella riaprì gli occhi nella penombra. Era nello stesso letto candido in cui era stata nelle ultime ore. O negli ultimi giorni.
Non aveva idea di quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva ripreso conoscenza, ma il luogo era sempre quello: una specie di hangar, con un pavimento scuro e lucente e un soffitto alto, sorretto da travi in acciaio.
Prima di essere portata lì era stata in un capannone del tutto simile. Dove però era circondata da paraventi bianchi che nascondevano la presenza di altre persone. Nei pochi momenti di lucidità ricordava di averne sentito le voci e i lamenti. Non sapeva per quanto ci fosse rimasta, ma le immagini del letto che scorreva lungo un corridoio illuminato erano il suo ricordo successivo. Qualcuno l’aveva trasportata in quello stanzone, talmente grande da contenere un Boeing 747, e l’aveva lasciata da sola.
Si guardò intorno, muovendo solo gli occhi: alla sua destra, all’interno del cono di luce, c’era un piccolo carrello sul quale erano poggiati alcuni strumenti chirurgici. Oltre, sullo sfondo, le sembrava di intravedere una vetrata. Sopra, a intervalli regolari, una lucina rossa, appena percettibile, lampeggiava nel buio.
Cercò di girarsi dalla parte opposta, verso il timer. Dalla sua posizione non poteva vederlo e riusciva solo a scorgere i tubicini che raggiungevano il catetere al suo braccio. Era ancora alla seconda siringa?
Non poteva saperlo, così come non sapeva il motivo per cui si trovava lì.
Per quanto ci avesse pensato non riusciva a immaginare una spiegazione ragionevole. Quando l’avevano rapita si trovava a Lugano per una questione personale. Voleva adottare un bambino e le avevano spiegato che l’avvocato de Chailly era la strada più veloce.
«È tutto perfettamente legale», le aveva assicurato l’uomo, anche se lei sospettava che non fosse esattamente così. Ma non le interessava: pur essendo un magistrato, abituata per professione a far rispettare le regole, in quel caso aveva deciso di agire diversamente… Non avrebbe violato la legge, quello no, ma avrebbe semplicemente approfittato di ciò che i giuristi chiamano un “vuoto normativo”.
Poteva essere quello il motivo per cui era stata rapita? Poteva avere a che fare con le ONG degli Stati Uniti a cui si sarebbe rivolto l’avvocato per farle avere il suo bambino?
Decise di no. Non aveva ancora preso alcun impegno, almeno non ufficialmente. E poi, se anche il rapimento fosse stato connesso all’adozione, non c’era motivo per somministrarle tutti quei farmaci. O per portarla all’interno di quella struttura, ovunque si trovasse.
Quella messinscena, dove il suo ruolo era di interpretare il topo da laboratorio, doveva avere un altro fine.
Ma allora, perché proprio lei?
Per quanto si sforzasse, non riusciva a trovare un motivo valido. E più ci pensava, nei pochi momenti di lucidità, più la sensazione di impotenza e lo scoramento si impadronivano di ogni sua fibra.
Provò a muovere una gamba e ci riuscì. Cercò di alzarla e sotto il camice bianco notò una vistosa fasciatura. Ricordava di essersi ferita nel tentativo di fuga, sulle montagne, ma poi i dettagli svanivano in un sogno nebbioso. Eppure, nonostante le sembrasse di aver sentito un gran male, adesso l’arto non le doleva affatto.
Proprio in quell’istante, in fondo al locale una porta si aprì. Un riflesso le diede ragione: da quel lato c’era una grande vetrata che occupava parte della parete.
Alzò la testa, intontita dai tranquillanti, e riuscì a individuare un gruppetto di uomini che venivano verso di lei. Indossavano camici e sembravano seguire un altro tizio, dalla faccia conosciuta. Aveva un viso pallido, due occhi scavati nascosti dietro un paio di occhiali da intellettuale, e sembrava piuttosto magrolino. Era il tizio che si era finto un poliziotto a Lugano. Lo stesso che aveva avuto occasione di rivedere alcune volte durante la sua prigionia.
Mentre fissava impotente il gruppetto avanzare minaccioso, alla sua destra si accese una fila di neon. La parte centrale dell’hangar, apparentemente vuota, venne illuminata a giorno.
Stella serrò gli occhi, abbagliata. Voltò lo sguardo dalla parte opposta e, mentre due energumeni la trascinavano verso il centro della sala, notò una donna, immobile, a poca distanza.
«Dove mi portate?», domandò, un tremito nella voce impastata.
L’intellettuale si limitò a fissarla senza dire nulla. Ma la risposta arrivò ugualmente.
Nel cono di luce dei neon era stata appena trasportata una struttura metallica, simile a un tavolo operatorio. La sdraiarono supina sulla lastra gelida, le divaricarono gambe e braccia e immobilizzarono polsi e caviglie con dei legacci.
«Questo le darà un po’ fastidio», le disse l’uomo, che teneva tra le dita una specie di palla da tennis, dalla quale pendevano alcuni lacci. «O chissà, magari sarà di suo gradimento… a qualche signora piace!».
Gliela infilò in gola, per impedirle di urlare, e la assicurò dietro la nuca. Lo fece lentamente, come suo solito, con una calma serafica.
Stella, immobile e impotente in quella posizione da Uomo vitruviano, non oppose resistenza. Si limitò a serrare gli occhi, terrorizzata come mai prima di allora.
«Dottor Van Buuren, sospendiamo la nucleasi?», propose uno dei medici all’intellettuale. Teneva in mano una grossa boccetta contenente un liquido bianco e lo stava collegando a una flebo. Sopra c’era un’etichetta scritta a mano e si leggeva bene un numero: 45-3.
«E perché mai?», rispose secco lo scienziato, tamburellando con le dita sul piano metallico. Parlò in inglese, ma con un accento strano, forse del centro Europa. «L’enzima di restrizione continuerà a fare il suo lavoro e se la miscela 3 funziona davvero lo capiremo prima!».
L’assistente rimase perplesso, con uno sguardo di compatimento. Poi le innestò un secondo catetere sulla mano e rifletté: “Oppure potrebbe ucciderla…”.