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Base di ricerca Sito A, Nord dell’Iran. 00:24.
-00:05:50 alla deadline.
Un arco di luce dorata graffiò il cielo nero.
Un istante dopo, il Black Hawk, colpito al rotore posteriore, rollò violentemente. Come un elastico tornò subito in asse per poi inclinarsi in avanti.
Ci fu un istante in cui i Navy Seals ebbero l’impressione di trovarsi in un vuoto d’aria. Poi, quando la forza di gravità cominciò ad attrarre il velivolo al suolo, vennero schiacciati sui portelloni.
«Compensa!». Hannibal Gutierrez si aggrappò al sedile con entrambe le mani. Digrignò i denti. «Perdiamo quota!».
Il pilota non fiatò. Tirò i comandi a sé, cercando di apportare piccole correzioni, ma inutilmente. Nella speranza di riuscire a far sollevare il muso, provò a “ridare motore”, con il solo risultato che il Black Hawk si avvitò su se stesso.
A differenza di come accade a un soldato, un elicottero non risponde immediatamente ai comandi: lo fa solo dopo aver vinto la forza d’inerzia. In quel caso però era tutto inutile… mentre il pilota tentava di evitare che il velivolo si mettesse a roteare, un incendio divampò sulla coda.
«Dieci metri», gridò al microfono, la voce piatta. «Tenetevi forte!».
Trascorsero pochi attimi e poi, come schiaffeggiato da un’onda, il Black Hawk dette uno strattone verso l’alto. Ma non fu sufficiente: il rotore principale arrancò, pur ottenendo il risultato di rallentare la caduta.
Cinque metri.
Gutierrez tirò l’estremità della cintura di sicurezza, pronto all’impatto. Lo stesso fecero i Navy Seals.
Due metri.
L’incendio sulla coda divampò velocemente e arrivò alla cabina. Un istante prima che l’elicottero si abbattesse al suolo, i Navy Seals scattarono verso il sedile del pilota.
Poi ci fu l’impatto, talmente violento che il rotore posteriore, in fiamme, si spezzò in due e volò a diversi metri di distanza.
Nella sala controllo deserta, all’ultimo piano dell’edificio principale, Henry Lee scattò in piedi, le mani sul cranio pelato.
Una fila di luci lampeggiava sulla console davanti a lui, accompagnata dal ronzio delle ventole dei computer. Dalle telecamere si vedevano i suoi uomini: avevano appena sparato un colpo di mortaio verso il Black Hawk. A quanto pareva l’avevano colpito, abbattendolo sulla pista d’atterraggio. Ma c’era un problema più grosso: gli elicotteri erano due, e il secondo stava atterrando proprio nello spiazzo davanti alla Serra.
«Squadre 1 e 5, dirigetevi al Giardino». Impartì quell’ordine sapendo che la sorveglianza era impegnata all’ingresso Ovest. Dalle telecamere sui cancelli vedeva un fiume di gente che stava entrando nel cuore della base. L’esplosivo sullo spyder aveva dato loro un vantaggio tattico considerevole.
«Negativo», disse una voce alla radio, interrotta da scariche di mitra. «Ripeto: negativo. Siamo bloccati dai manifestanti».
Un gruppo di due o trecento persone fungeva ora da muro invalicabile. Urlavano slogan e lentamente si dirigevano verso gli hangar, lungo la strada principale.
Nel frattempo, i monitor di sorveglianza diedero a Henry Lee la conferma che il secondo Black Hawk era atterrato. Dopo nemmeno un secondo sul display davanti a lui comparve un messaggio lampeggiante di pericolo: FIRE.
I boati degli esplosivi piazzati dai soldati si sommarono ai colpi di mitra e alle urla dei manifestanti. La sirena d’allarme risuonava lontana ma persistente.
«Lee». La voce di una donna irruppe dall’auricolare. «Lee, rispondi».
A trecento metri di distanza, sul lato est della base, Xiaochen Zhao era appollaiata sul sedile di una jeep della sicurezza. La stessa dalla quale era stato sparato il colpo che aveva abbattuto il Black Hawk.
L’aveva raggiunta poco dopo essere fuggita dal suo alloggio e adesso era diretta a tutta velocità verso il Building 1, l’edificio principale.
«Lee, mi senti?», incalzò ancora Xia, fissando l’elicottero in fiamme alla sua destra. Il fumo era ovunque e l’odore di carburante bruciato la nauseava.
«Forte e chiaro!», esclamò lui.
«Situazione?»
«Siamo accerchiati. Un gruppo di Navy Seals è già entrato nel Giardino e i manifestanti sono sotto le nostre porte».
«La cavia 45?»
«È sempre nell’hangar 4. Per adesso al sicuro».
Xiaochen scosse il capo. Quello che stavano subendo era un attacco in piena regola. Sapeva che sarebbe potuto accadere, ma l’unica consolazione era che agli americani non interessavano le cavie. Almeno non tutte… E lei aveva intenzione di salvarne una soltanto, l’unica che aveva risposto positivamente al trattamento.
«Avvisa Van Buuren», abbaiò, rabbiosa. «Digli di portare i campioni di DNA e la cavia 45 direttamente al terminal. Il prima possibile».
L’auto sobbalzò e in quel momento i fari inquadrarono dieci militari in mimetica, con indosso passamontagna neri. Dovevano essere i Seals scampati alla caduta dell’elicottero.
«Evitali», urlò all’autista, che scartò prima a destra e poi a sinistra. Gli pneumatici slittarono sull’asfalto.
Si udirono alcuni colpi di mitra e il parabrezza della jeep andò in frantumi. Ma l’auto non si fermò. Si infilò su un sentiero secondario, costretta a dirigersi verso Main Street, e dopo pochi metri si ritrovò lontano dalla pista d’atterraggio. In pochi istanti fu fuori dal raggio di fuoco.
«Lasciate perdere la jeep! Proseguiamo con il Piano B», Gutierrez spostò il sigaro tra le labbra e mise l’M16 a tracolla. L’elicottero era stato abbattuto mentre volava molto basso e, per loro fortuna, grazie alla bravura del pilota si era accasciato al suolo senza provocare un’esplosione. I soldati erano tutti rimasti illesi, così come il cane segugio. «Forza Enya. Fiuta!».
Il labrador tirò il guinzaglio del suo conduttore e si diresse verso gli edifici al centro della base.
«Abbiamo quindici minuti prima che gli F-14 iraniani siano qui», avvisò i suoi uomini, mentre, al buio, correvano come maratoneti.
Di fronte a loro c’era una marea umana che urlava, agitava cartelli e avanzava lungo Main Street, tra due file di costruzioni più basse. Erano il diversivo che avevano pianificato e, in teoria, non avrebbero dovuto preoccuparsene, visto che sarebbero dovuti atterrare sul tetto. Ma nulla stava andando come era stato programmato.
«Per di là», annunciò uno degli uomini, strattonato dal cane. C’era odore di cherosene e si udiva una sirena che suonava.
Il labrador tirò il guinzaglio e indirizzò la squadra in una stradina laterale, fiancheggiata da muri di recinzione sormontati dal filo spinato. Raggiunto l’edificio principale, un cubo di vetro e acciaio, il cane si fermò e poggiò le zampe anteriori su una porta di metallo.
«Fatela saltare», sentenziò Gutierrez, davanti all’ingresso. Guardando in alto si scorgeva un vano scala esterno a forma circolare: era collegato alla costruzione principale tramite supporti d’acciaio e sembrava raggiungesse il tetto. Era come il vano di un ascensore.
In quel momento si udirono colpi di mitra, forse sparati dalle guardie contro i civili. Ma fu proprio ciò di cui avevano bisogno: le esplosioni coprirono la deflagrazione del C4 che permise loro di entrare.
Herman Van Buuren si precipitò giù dalle scale, scortato da due guardie armate. Gli ordini di Xiaochen Zhao gli erano stati riportati parola per parola da Henry Lee.
Prima di abbandonare il laboratorio, aveva messo nella valigetta alcune provette sterili con il DNA fossile e aveva prelevato in fretta e furia un secondo lembo di papiro. Si era infilato un giaccone da civile sopra il camice e si era messo a correre.
L’hangar 4 distava pochi minuti a piedi dal Building 1, ma il problema era evitare i manifestanti.
Per sua fortuna, la moltitudine di gente sembrava stesse tornando verso l’uscita, in direzione dei primi tre hangar, gli unici occupati. Qualcuno doveva essere riuscito a superare la sorveglianza e doveva aver visto all’interno… E se era così, poteva stare tranquillo: ciò che avrebbero trovato li avrebbe attratti come una calamita, lasciando a lui la possibilità di raggiungere la cavia 45.
«Nascondete le pistole», avvisò le guardie, mentre attraversavano la strada nelle retrovie dei civili.
Il tragitto durò soltanto pochi minuti. Camminarono velocemente, la testa bassa e il collo nascosto tra le spalle. Non fu necessario sparare neppure un colpo: il gruppo di civili si spostò verso l’hangar 3 proprio nello stesso istante in cui loro raggiunsero l’ingresso del 4.
Entrò in un grande atrio deserto. La vetrata esterna era stata completamente abbattuta e accanto alla porta rimaneva soltanto lo scheletro costituito da un reticolo di montanti metallici. Il bancone della sorveglianza era rovesciato e a terra c’erano due guardie. Avanzò, calpestando vetri e bossoli di mitra, e raggiunse il corridoio principale senza trovare alcuna resistenza.
«Aspettatemi qui. Farò in fretta», avvisò i due uomini, che a differenza sua avevano uno sguardo impaurito e disorientato. Passò accanto al grande vetro panoramico, che doveva aver retto al passaggio dei manifestanti, e per un secondo osservò la sua cavia: il tavolo su cui era immobilizzata Stella Rosati era al centro del grande spazio vuoto, isolata e sotto una campana di luce. Tutto intorno c’era buio.
Tolse il giaccone, indossò gli occhiali protettivi e appoggiò il polpastrello sul rilevatore di impronte. Ma non fu necessario: la porta era già aperta, forse a causa dell’allarme antincendio. Sbuffò, consapevole che se quella serratura era aperta, lo erano anche quelle laterali.
Scosse la testa e si addentrò nella penombra. Faceva freddo e man mano che si avvicinava i suoi passi rimbombavano nel silenzio.
Si avvicinò lentamente con il cuore in gola, augurandosi che la sua preziosa cavia respirasse ancora. Fissò il timer della deadline: lampeggiava e segnava 00:00:00.