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Valico di Erez, Israele, striscia di Gaza. 14:33.

-32:26:59 alla deadline.

 

Henkel spense il cellulare di Elisabeth e glielo passò. Aveva seri dubbi che il greco gli avrebbe spedito le coordinate, ma almeno ci aveva provato.

Sospirò e avanzò lentamente lungo un tunnel semibuio e angusto, alto poco più della sua testa e largo circa un metro. Il tetto e le pareti erano in cemento armato grezzo e dal soffitto penzolavano, a distanza di diversi metri, piccole lampadine. L’aria era pesante, ammorbata da un forte odore stantio.

Elisabeth camminava davanti al gruppetto, lo sguardo dritto avanti a sé. Erano entrati in quel cunicolo – che dalla Barriera portava direttamente all’interno della striscia di Gaza – diversi minuti prima, dopo che aveva ricevuto un SMS di conferma. Si erano calati in quello che aveva l’aspetto di un pozzo per l’acqua, non lontano dal kibbutz di Erez, ed erano scesi per circa trenta metri.

«Come facevi a sapere di questo tunnel?», la interrogò l’agente dell’SSV, per nulla convinto che trovarsi lì fosse una buona idea.

«Walid. Il mio fidanzato», replicò Elisabeth, con un’alzata di spalle.

Il mio fidanzato.

Forse avrebbe dovuto aggiungere ex fidanzato.

«Non ne sono certa…», tuonò Viola, strisciando i piedi nella penombra, «ma credo che essere a conoscenza di uno di questi tunnel e non denunciarlo alle autorità sia un reato molto grave». Si riferiva al fatto che i terroristi palestinesi usavano proprio quelle caverne artificiali per infiltrarsi in territorio israeliano. Nei mesi precedenti, una grande campagna militare del governo ne aveva distrutte decine, lunghe fino a quattro chilometri.

«E perché credi che sia andata da sola alla Hebrew University? Sarei potuta semplicemente andare alla polizia e denunciare l’omicidio di Friedman…».

«Ma avevi paura che ti facessero troppe domande. Sul tuo fidanzato magari?», domandò Viola, senza rallentare l’andatura e stringendo a sé una borsa con il portatile di Zonca. Si sentiva bene. Nonostante il pericolo, nonostante avesse rischiato la vita, era felice, quasi eccitata per la missione. Quel viaggio le stava finalmente dando l’opportunità di dimostrare chi era, buttandosi una volta per tutte alle spalle la fama di raccomandata. Avrebbe scovato il Toro e l’avrebbe consegnato al dottor Randazzo su un piatto d’argento.

Elisabeth annuì. «Lui non è un terrorista… Ma da quando c’è l’embargo, la gente qui muore di fame. Il mio Paese blocca la maggior parte delle merci, non ci sono acqua né medicine».

«È un contrabbandiere», dedusse Henkel a mezza voce. «Qual è esattamente il tuo piano? Una volta arrivati nella striscia, come pensi di farci espatriare…? I droni e gli F-16 israeliani pattugliano il territorio giorno e notte!».

«Eccoci», lo interruppe Elisabeth. «Siamo arrivati».

Davanti a loro adesso si apriva una stanza più ampia. Si udiva il ronzio dell’aria condizionata e allineati lungo una parete erano sistemati quattro lettini da campo. A fianco, una scala a chiocciola di ferro saliva fino a una botola nel soffitto. Immobile, di guardia, c’era un giovane con un AK-47 tra le mani. Appena vide i tre sbucare dal tunnel sorrise. «Cara Eliush, che piacere rivederti!».

«Ahmad!». Elisabeth lo abbracciò. «Ti ringrazio. Eravamo nella merda…».

Il giovane, quasi certamente meno che ventenne, squadrò Henkel e Viola con aria incerta.

«Sono fidati!», lo rassicurò Elisabeth, in arabo. «E queste sono per voi». Estrasse dalla borsa le dieci scatolette di medicinali che avevano acquistato prima di partire da Gerusalemme e le porse al giovane.

Il viso di Ahmad si illuminò e come in un riflesso condizionato le fece cenno con il capo di salire sulla scala.

Quando sbucarono, all’interno di un garage, Elisabeth ne approfittò per chiedergli ciò che più le premeva: «Walid ci aiuterà?»

«Conosci mio fratello…», fu la risposta secca, seguita da un sorriso. Poi il ragazzo raggiunse un furgone con il motore acceso.

I tre salirono e il veicolo si immise nel labirinto di stradine di un sobborgo cittadino. Un inconsueto odore di pane aleggiava nell’aria. Per strada c’erano molti passanti, alcuni supermercati e un grande mercato a cielo aperto.

Gli edifici, visti attraverso il parabrezza, avevano tutti il medesimo colore grigiastro e un aspetto polveroso e fatiscente. Davanti a loro, un palazzo abbattuto solo per metà, mancava dell’intera facciata frontale. All’interno, le scale ancora in piedi per miracolo, davano l’impressione di essere come scheletri di un corpo sventrato. Ovunque c’erano macerie, calcinacci, reti di ferro, rifiuti… e panni stesi. Sembrava quasi che la morte a ogni angolo di quelle strade si fermasse davanti alla quotidianità.

Il viaggio durò poco più di dieci minuti, con la domanda di Henkel ancora dispersa nell’aria. Dovevano andare ad Atene. Come avrebbero fatto a lasciare quella prigione a cielo aperto?

«Siamo arrivati», disse Elisabeth appena furono nei pressi di un grande edificio con il tetto di lamiera. «Lui è Walid!».

In piedi, di fianco all’entrata, c’era un giovane, più vecchio di Ahmad, ma quasi certamente non ancora trentenne. Quando li vide gesticolò con le mani e fece scorrere il grande portone di metallo, rivelando un hangar e un vecchio aereo da turismo ad ala alta, un Cessna 172RG Skylane.

«Eccolo», dichiarò Elisabeth, «quello è il nostro Cherubino».