EPILOGO

 

 

 

 

 

 

 

Roma

martedì 11 marzo, ore 12:30

 

Il presidente Gregorio Pulvirenti aveva seguito le primarie di Alleanza democratica con distacco, senza rilasciare alcuna dichiarazione.

Durante i quindici giorni della campagna elettorale aveva cominciato un giro di consultazioni ufficiose tra le altre forze politiche. Il suo scopo era cercare di capire quali fossero le intenzioni nei confronti di un eventuale governo guidato da Rosati e quali nei confronti di uno guidato da Luca Zorzi. Nella mente del presidente della Repubblica la situazione storica, dopo l’attentato ad Alberto Zorzi, era tale per cui sarebbe stato opportuno un governo con un ampio consenso in parlamento. Era finito il tempo delle decisioni con maggioranze risicate o a colpi di fiducia. Il Paese aveva bisogno di una guida autorevole che desse stabilità ai mercati e che fosse supportata da una maggioranza coesa e stabile.

Alla proposta di Pulvirenti di un governo di unità nazionale, il Blocco di centro si era informalmente detto favorevole, ma solo se a guidarlo fosse stato Zorzi. Era stato molto meno entusiasta di partecipare a una maggioranza guidata da Rosati. I Popolari, nome con il quale ormai veniva chiamato il Movimento popolare repubblicano, non avevano assunto alcuna posizione ufficiale, in attesa di capire come fossero andate le primarie degli avversari di sempre. L’impressione del presidente era però stata favorevole: si era convinto che in cambio di uno o due ministeri avrebbero anche potuto accettare.

L’ultimo a essere ascoltato, proprio il lunedì precedente, era stato Tommaso Signorini, un omone di quasi due metri, di mezza età, appartenente al Fronte autonomista del Nord. Anche il suo partito, ormai relegato all’opposizione da molti anni, in cambio di alcune poltrone si era detto tendenzialmente favorevole.

Quel martedì mattina, Gregorio Pulvirenti, per bocca del Segretariato Generale della presidenza della Repubblica, aveva chiamato Luca Zorzi. Gli aveva fatto i complimenti e l’aveva invitato a salire al Quirinale per un colloquio informale.

Quando Zorzi si spostava a Roma, alloggiava all’Hotel Excelsior, in una suite affacciata su via Veneto. Tre camere da letto, un salone e tre bagni. Aveva anche eletto uno dei locali arredato in stile veneziano a piccolo ufficio. In quella stanza aveva studiato il fascicoletto blu che gli era stato recapitato qualche giorno prima e lì aveva firmato la lettera di Proposta di modifica della direttiva 11.110 sullo sviluppo economico.

Nel medesimo luogo, mentre osservava il serpentone di auto che percorreva la trafficata strada all’incrocio con via Boncompagni, aveva ricevuto la telefonata del presidente Pulvirenti.

«Sarò felice di venire», aveva risposto con un tono di voce entusiasta. Poi aveva concordato con il Segretariato Generale che sarebbe salito al Quirinale alle tredici e trenta.

Un’ora prima era nella grande stanza da bagno con vasca in alabastro. Stava immobile, a torso nudo, con un paio di boxer a righe e il rasoio in mano.

Sorrise alla sua immagine riflessa nello specchio. Dopotutto il suo sorriso affabile era stata una delle armi più importanti… dopo la cicatrice.

Si accarezzò la ferita, segno inequivocabile e indelebile dell’operazione che gli aveva salvato la vita.

«Sei pronto?». La voce di Lucrezia rimbombò nella stanza. Era squillante e allegra. Per loro, le due notti precedenti erano state indimenticabili. Finalmente si erano riavvicinati e Lucrezia sembrava ritornata la splendida ragazza che aveva conosciuto: solare, instancabile e orgogliosa di quello che erano diventati.

«Ho quasi finito!», rispose Zorzi.

«Hai ordinato da mangiare o scendiamo al ristorante?», lo interrogò Lucrezia.

Il neosegretario di AD si sciacquò il viso e chiuse il rubinetto. Poi uscì dal bagno e le sorrise. «Ho chiamato poco fa. Ormai non facciamo più in tempo a scendere al ristorante. Ho ordinato carpaccio di spada per te e sushi per me».

Lucrezia sorrise, era il suo piatto preferito. «Grazie mille amore mio». Gli si avvicinò e gli diede un bacio sulle labbra.

Se Zorzi non avesse vissuto tutta l’evoluzione del loro rapporto, certamente avrebbe faticato a credere che una persona potesse cambiare tanto repentinamente. Era tornata la donna splendida della quale si era innamorato anni prima ed era incredibile che la trasformazione fosse stata causata da un’elezione e… da un omicidio.

Luca Zorzi baciò la moglie e poi si avvicinò all’armadio. Fece scorrere l’anta a vetro e scelse accuratamente una camicia bianca, una cravatta Regimental e un abito blu scuro.

Mentre si stava allacciando la camicia bussarono alla porta.

 

Tre minuti prima, Rosana Castañeda, trentaquattro anni, fisico slanciato e pelle olivastra, stava salendo nell’ascensore di servizio dell’Hotel Excelsior.

Lavorava come inserviente da quasi tre anni e con il suo stipendio era riuscita a far trasferire in Italia dal Venezuela la sorella Daimara e la figlia Giselle. Entro poco tempo, se non ci fossero stati intoppi, avrebbe potuto riabbracciare anche il marito Hernán.

Guardava diritto davanti a sé, con sguardo fiero, mentre con una mano bloccava il carrello portavivande. Appoggiato sopra, protetto da un coperchio d’argento e da una tovaglietta di seta, c’era un grande vassoio. Sul piano erano sistemati due piatti di porcellana di Boemia, quattro bicchieri di cristallo che tintinnavano alle vibrazioni dell’ascensore, posate d’argento e un vaso vuoto.

La porta scorrevole si aprì lentamente e Rosana si incamminò lungo il corridoio di marmo rosa, fermandosi poco prima della suite a di Luca Zorzi. Fece scorrere il badge in una serratura elettronica e aprì le porte di una stanza di servizio. Lì avrebbe dovuto prendere i fiori freschi da mettere nel vaso.

Entrò nello sgabuzzino lasciando il vassoio in corridoio ma, improvvisamente, si sentì trattenuta da qualcosa. Cercò di divincolarsi, prima con le spalle, poi con un calcio, ma invano.

Le mani che la tenevano ferma la spinsero dentro a forza e richiusero la porta.

Rosana, presa alla sprovvista e incapace di reagire, provò a urlare. Ma non fece in tempo.

L’aggressore, con un tovagliolo bianco premuto sulle sue labbra le impedì di emettere alcun suono.

In pochi secondi il cloroformio fece effetto.

Le gambe di Rosana cominciarono a cedere. La donna sentì le forze venirle meno e si accasciò su se stessa.

L’aggressore non perse tempo. Prima la sorresse, per evitare che la caduta potesse attirare l’attenzione di qualcuno, e poi la adagiò sul pavimento.

Lentamente cominciò a slacciarle la giacca nera e la camicetta. Poi fece scorrere la gonna sui fianchi e la sfilò completamente lasciando il fisico scultoreo della giovane cameriera coperto soltanto da mutandine e reggiseno.

Dopo pochi istanti l’aggressore uscì dal ripostiglio con due rose gialle in mano.

 

Luca Zorzi, infilatosi i pantaloni, aprì la porta della suite.

«Prego. Venga pure avanti». Non guardò in faccia la cameriera perché nel frattempo era intento ad allacciare i bottoni della camicia e si limitò a fare un piccolo cenno con il capo.

Il carrello portavivande fu spinto al centro della stanza. La donna apparecchiò su un piccolo tavolo, sistemò i piatti, i bicchieri e le posate.

Lucrezia le si si avvicinò ma non notò che il nome tipicamente sudamericano sul cartellino di riconoscimento d’ottone, appuntato sulla camicetta, non corrispondeva affatto alla fisionomia della donna che aveva di fronte: alta, capelli neri con una ciocca d’argento e pelle bianchissima.

Sollevò il coperchio del vassoio e osservò il pesce spada: aveva un colore rosa ed era guarnito con fettine di limone e prezzemolo.

«Grazie». Eva sorrise a Zorzi. Mise in tasca la banconota da venti euro ricevuta come mancia e, prima di uscire, lo osservò soddisfatta. Lui innaffiò abbondantemente uno dei maki con la salsa corretta alla stricnina e, afferratolo con le bacchette, lo trangugiò in un solo boccone.

Il Cigno Grigio sorrise, si inchinò e si richiuse la porta alle spalle. Poi si incamminò velocemente verso lo stanzino nel quale aveva lasciato Rosana Castañeda, la proprietaria dell’uniforme che aveva addosso.

Mentre camminava a passo veloce lungo il corridoio, pensò tra sé che quello, per lei, sarebbe stato l’ultimo lavoro. Non provava tristezza, ma forse il rapporto con Fossati e quello che avevano passato insieme, avevano un po’ ammorbidito il suo cuore. Si sentiva responsabile: l’unica persona che aveva provato a cambiare quel sistema era stata ammazzata per mano sua.

Mentre entrava nel ripostiglio calcolò che il sindaco di Venezia avrebbe cominciato a sentirsi male entro pochi minuti e, dopo dolori lancinanti, sarebbe deceduto nel giro di una o due ore al massimo. La polizia avrebbe certamente rinvenuto nel suo corpo dosi abbondanti di stricnina ma lei nel frattempo sarebbe già stata lontana.

Eva non sapeva chi avrebbe preso il posto del giovane politico, ma l’ottimismo per il futuro – quello che nel giro di un giorno l’avrebbe spinta a tornare da Lorenzo Fossati – le diceva che prima o poi sarebbe arrivato un nuovo Alberto Zorzi.

Le tornò in mente la conversazione avuta con Armin Schollen: «Lei non ha intenzione di cambiare il mondo», le aveva detto il professore.

Era vero. Non poteva cambiare il mondo, anche perché i documenti presi a casa di Defour – gli unici che potevano far sapere agli europei la verità su quanto accaduto al premier – non potevano essere divulgati. Erano l’assicurazione sulla sua vita e su quella di Fossati.

Non poteva cambiare il mondo, era vero. Però, con Luca Zorzi morto, ci sarebbe stato almeno un cattivo in meno… Si trattava di una magra consolazione, ma la faceva sentire meglio e le dava l’impressione di non aver lasciato a metà un lavoro cominciato male.

«Non possiamo cambiare il mondo…», aveva risposto Eva a Schollen. «Però tutti possiamo contribuire affinché sia un posto migliore».

 

 

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