CAPITOLO 34
Venezia,
lunedì 17 febbraio, ore 22:10
«Non parliamone qui. Vediamoci domani mattina!». Luca Zorzi aveva gli occhi stanchi. Lo sguardo si divideva tra una piccola imbarcazione che procedeva lenta sotto il Ponte di Rialto e il parapetto in legno sulla riva opposta del Canal Grande.
Era rientrato a Venezia, nel palazzo che apparteneva alla sua famiglia da due secoli, nel pomeriggio.
L’uomo, immobile accanto alla porta, non rispose. Era più alto di Zorzi, scuro in volto e con la faccia da topo. Vestiva con un abito a buon mercato, simile a quello di un becchino.
«Si porti via le foto, non è il caso di lasciarle qui. Me le darà domani!», continuò Zorzi voltandosi e indicando una busta gialla appoggiata alla scrivania. «Non mi basta qualche immagine. Voglio sapere chi è e soprattutto cosa si dicono. Le ho fornito tutti gli accessi. Si metta al lavoro!».
Dalla finestra dello studio, al terzo piano, la vista sulla città sarebbe stata mozzafiato per chiunque. Le luci della notte si riflettevano sull’acqua agitata del canale e creavano giochi di luce e ombre sulle facciate dei palazzi. Gli edifici in stile gotico fiorito, in quello rinascimentale veneziano, in quello veneto bizantino si alternavano senza soluzione di continuità in una sorta di gigantesco cocktail di stili architettonici. Le facciate decorate, le logge, gli archi, le bifore, i marmi pregiati, gli intarsi policromi sugli edifici però non impressionavano Zorzi. Per lui erano la normalità.
Era cresciuto in quella città. Tra le mura di quell’edificio del Quattrocento, tra quei corridoi e tra quelle opere d’arte, tanto da essersi abituato, quasi annoiato. Fin da bambino, quando si rincorreva con il fratello Alberto tra le stanze del palazzo, era passato accanto ai dipinti di Tiziano, di Mantegna, di Pinturicchio e di Giovanni Bellini. Tra i suoi antenati c’era anche un Doge, e la collezione che aveva ricevuto in dote avrebbe fatto invidia a qualunque museo. Ma l’esperto non era lui. Era Alberto.
A distanza di molti anni, Luca Zorzi non era cambiato: di quelle tele, statue e incunaboli, custoditi gelosamente tra le sue quattro mura, gli interessava soltanto il contratto assicurativo e il valore di mercato.
L’uomo vestito come un becchino rimase fermo con le braccia conserte. Con lo sguardo basso osservava la punta delle sue scarpe. «Perfetto», disse infine. Infilò le fotografie nella busta e se la mise in tasca. «A domani mattina, allora».
Si congedò con un lieve cenno della testa e imboccò silenziosamente la scala interna dell’edificio.
Lo studio rimase in silenzio.
La città però non dormiva mai: si sentiva il tubare di qualche piccione e il rumore ritmico delle onde che schiaffeggiavano le facciate dei palazzi. In lontananza si percepiva anche il rombo di un’imbarcazione a motore e il vociare allegro di qualcuno sul Ponte di Rialto.
Zorzi sapeva che sarebbe stato opportuno attendere, ma quel tarlo lo infastidiva da giorni. Doveva sapere, subito. Doveva sapere se Lucrezia lo tradiva: anche sull’aereo, di ritorno dal funerale, non si era mai separata dal tablet e dal cellulare. Aveva scritto, inviato messaggi e chattato con qualcuno, tale SPS64. Doveva sapere chi era.
Il sindaco scosse la testa e si costrinse a pensare alle cose importanti. Estrasse il cellulare e compose il numero di Mary Capraro: a quell’ora avrebbe saputo sicuramente dirgli qualcosa di concreto.
«Pronto?», la voce attraverso il telefono era vispa e affabile. «Ciao Luca. Tutto ok!».
«Hai parlato con Pulvirenti?»
«Sì, oggi pomeriggio».
«Che ne pensa?»
«Mi ha ascoltato. È disposto ad aspettare».
«Anche io voglio parlarci!». Zorzi addolcì la voce, quasi il suo fosse più un suggerimento che una richiesta.
«Abbi pazienza, prima dobbiamo fare in modo che la tua candidatura venga…». La Capraro cercò la parola giusta. «Venga allo scoperto! Non sei tu che ti candidi, è il partito che ha bisogno di te. Tu ti metti solo a disposizione!».
«Il tuo amico, però, oggi ha fatto un bel colpo con quella conferenza stampa».
«Fortunatamente le primarie non saranno domani. La gente dimentica in fretta».
«Questo non lo dimenticheranno facilmente!», osservò amaro Zorzi. «Comunque, io non credo neppure a una parola di quello che ha detto. Dietro alla morte di Alberto c’è molto di più».
La Capraro sospirò. «Forse hai ragione. Ma non è questo il punto».
«E qual è il punto?»
«Il punto è che dobbiamo fare in modo che le primarie siano indette il prima possibile. E soprattutto dobbiamo fare in modo che tu le vinca!».
Zorzi si strinse nelle spalle e osservò dalla finestra un vaporetto che avanzava lentamente. Lo vide passare davanti agli splendidi archi a tutto sesto della Ca’ Loredan e ai loggiati di palazzo Farsetti, poi distolse lo sguardo.
Doveva ringraziarla? E soprattutto, era sincera o gli stava giocando qualche tranello in accordo con Rosati?
«Cosa suggerisci?»
«Quello che è importante adesso è far circolare il tuo nome. Gli elettori devono sapere che nel partito non si dà nulla per scontato. Devono sapere che le primarie sono l’unico mezzo che accettiamo per individuare il nuovo leader. L’unico mezzo che tuo…». La donna ebbe un’esitazione. «L’unico mezzo che tuo fratello avrebbe accettato».
«Ho già parlato con qualche commentatore. Nei pezzi di domani il mio nome comincerà ad apparire».
«Bene!», sentenziò la Capraro.
«Ma… non vorrei fosse troppo presto. Non vorrei bruciarmi!».
«Non ti preoccupare. Fidati di me. Se gli articoli saranno scritti bene, non potranno che giocare a tuo favore. E Pulvirenti sarà obbligato ad aspettare il nuovo segretario del partito per le consultazioni».
«Se ne può occupare il tuo addetto stampa?». Zorzi indugiò, quasi non si sentisse sicuro della piega che stava avendo quella conversazione. «Per… per così dire… per fare in modo che gli articoli siano scritti bene?»
«Sì, Di Palco è sveglio!», rispose decisa. «Non ti preoccupare, la stampa farà quello che diciamo noi. Adesso tocca a te, ce la fai per giovedì?»
«Ci sto lavorando. È possibile. Vedremo».
«Quello sarebbe il colpo di grazia», concluse la Capraro.
Zorzi rimase in silenzio per un istante. Scrutò il vaporetto mentre si allontanava nella penombra del Canal Grande e poi continuò: «Mary, posso chiederti una cosa?»
«Certo!».
«Perché lo stai facendo?»
«Diciamo che ho le mie ragioni!».
Pochi minuti dopo, Luca Zorzi camminava sul selciato umido di Campo San Filippo e Giacomo. La città era gelida e battuta dal vento della laguna.
Alzò lo sguardo. Dietro il campanile inclinato di San Giorgio dei Greci aveva fatto capolino la luna piena, striata di giallo. Le nubi in movimento, che la lambivano, conferivano allo stretto vicolo una colorazione insolita: tanto fioca da farla sembrare una camera da letto illuminata da un abat-jour.
Si mosse silenziosamente tra le calli e i campielli semideserti. Superò il piccolo ponticello su Rio del Vin, salendo i gradini a due a due, e attraversò con passo svelto Campo San Zaccaria.
Raggiunse la destinazione finale in meno di venti minuti. Il portone era affacciato su un piccolo canale: l’acqua era nera e immobile come una macchia d’olio.
Bussò e attese.