CAPITOLO 69
20 km a nord di Lione, Francia,
ore 22:20
La Kia Sorento correva verso nord lungo l’autostrada A6, semideserta. Piovigginava e nell’oscurità l’unico rumore che le faceva compagnia era quello costante dei tergicristalli sul parabrezza.
Eva era alla guida e Lorenzo Fossati dormiva.
La donna osservò il navigatore: erano in viaggio da poco più di tre ore e si erano appena lasciati alle spalle la zona industriale di Lione. Alzò lo sguardo e i fari allo xeno del fuoristrada illuminarono un cartello stradale. Era l’indicazione per Villefranche-sur-Saône. Doveva fermarsi.
Prima di partire aveva controllato il portafoglio e si era resa conto che la scorta di dollari ed euro che aveva portato con sé era quasi terminata.
Inserì la freccia e uscì dall’autostrada.
Seguì nel buio e in silenzio le indicazioni della voce guida per quindici chilometri. Non era mai passata da quella zona in auto e quindi non era in grado di dire se, oltre le sporadiche luci accese lungo una strada a due corsie, ci fossero colline, montagne, palazzi o perfino il mare o il deserto.
Guardò l’orologio: erano quasi le dieci e trenta. Il navigatore indicava che per la destinazione finale mancavano ancora più di sette ore.
Individuò il cartello che stava cercando e rallentò. Svoltò a sinistra e scese lungo una stradicciola ripida e sterrata.
Davanti ai fari dell’auto si vedevano alberi e arbusti sulla destra e una staccionata male in arnese sulla sinistra. La seguì per un breve tratto e si ritrovò su un grande spiazzo.
«Dove siamo?». Fossati aveva la voce impastata. «Scusa, devo essermi appisolato!».
«Dormi da quasi un’ora», rispose lei, brusca.
«E comunque… dove siamo?»
«Ci riposiamo qualche ora e poi verso le sei ripartiamo. Se tutto va bene, saremo a destinazione a mezzogiorno».
Fossati scosse la testa. Anche se non fosse stato d’accordo nel fermarsi, ormai era troppo tardi.
Davanti a loro si ergeva un vecchio casolare in mattoni a due piani. Passarono accanto a quello che doveva essere stato un silos per la raccolta del grano ed Eva fermò l’auto proprio sotto un’insegna malamente illuminata: HO EL.
Scesero dall’auto riparandosi con il giubbotto di lui.
L’aria era fresca e la pioggia sembrava più insistente.
Eva introdusse la chiave magnetica nell’apposito slot accanto alla porta e accese la luce della stanza. Sembrava un albergo a ore.
Nessuno li avrebbe mai cercati lì, neanche il proprietario, che aveva riscosso la pigione in anticipo e che aveva appena degnato di uno sguardo i loro documenti falsi.
La camera era piccola: un letto matrimoniale in noce con un copriletto a scacchi marrone, due comodini, una finestra che dava sulla strada e dalla quale si vedevano pochi fari scorrere veloci. Di fronte al letto c’era una credenza in truciolato dello stesso colore dell’armadio, sulla quale era posizionata una malandata televisione a tubo catodico.
«Io faccio una doccia», dichiarò Fossati. «Sono esausto».
Eva fece un cenno con la mano e lui scomparve dietro la porta del bagno.
Si sedette sul letto e prese in mano il telecomando. Era stanca di riflettere senza avere nessuna certezza.
Tutto ciò che aveva sentito dal professor Schollen a cosa le serviva? Davvero l’idea che aveva avuto Fossati, e che le aveva confidato appena ripartiti da Aix, poteva funzionare? Eva non lo sapeva, però, per una volta, non aveva un’alternativa migliore.
“In fin dei conti”, si era ritrovata a riflettere, “avere qualcuno che pensa a te è piacevole…”.
Accese il televisore e decise di saltare tutti i programmi francesi: dopo tre ore di Schollen, non ne poteva più di quella lingua. Fece una rapida carrellata sugli altri canali disponibili e trovò un All News. Almeno non era in francese.
Sullo schermo c’era un volto che le era noto: Luca Zorzi, intervistato da una bella giornalista mora. C’era anche una voce femminile che si sovrapponeva a quella dello studio televisivo: era la traduttrice simultanea che ripeteva in inglese le risposte del fratello di Alberto Zorzi.
Non lo aveva mai conosciuto personalmente ma quando aveva preparato il lavoro di Monaco si era documentata. Era sempre molto scrupolosa: cercava informazioni sulla vittima, immagini dei familiari e ogni notizia che le potesse essere utile per evitare fastidiosi imprevisti.
Luca Zorzi lo aveva visto in alcuni filmati e in fotografia. Osservandolo attraverso lo schermo televisivo le sembrò più giovane di quanto ricordasse.
«Come vi avevo annunciato…». La voce monotona della traduttrice si sovrappose a quella della giornalista televisiva, che parlava in italiano. «…questa sera abbiamo anche filmati storici. Vediamo il servizio».
Lo studio televisivo fu inquadrato dall’alto, le luci si spensero e dietro a Luca Zorzi comparvero delle immagini in bianco e nero. La regia mandò in onda le fotografie a tutto schermo, accompagnate dalle tristi note di un pianoforte.
Si vedevano due bambini che si tenevano per mano. Alberto e Luca Zorzi da piccoli, forse. Poi si vedevano gli stessi due soggetti qualche anno dopo. Ancora foto, ma a colori. Luca Zorzi era un adolescente con i capelli a spazzola, Alberto, di dieci anni più grande, con il tempo non era poi cambiato molto.
Eva cambiò canale e ne scelse uno a caso. I racconti melensi, soprattutto in quel momento, non facevano per lei.
Si tolse gli stivali e si sdraiò sul letto cercando di capire quale forma avessero le numerose macchie sulla carta da parati del soffitto. Poi, non contenta, estrasse da un piccolo portafogli una fotografia e cominciò a fissarla.
«Cosa stavi guardando?», si informò Fossati, appena uscito dal bagno con un asciugamano sui capelli.
«Non so. Luca Zorzi in qualche trasmissione TV».
«Puoi rimetterlo?».
Eva fece una smorfia e lo accontentò.
Il servizio strappalacrime era appena terminato.
Il pubblico applaudiva. Arianna Manzoni era in piedi e guardava la telecamera con sguardo penetrante. «Parliamo del rapporto con suo fratello. Eravate molto legati?».
Luca Zorzi, in primo piano, annuì più volte.
«Qual è la cosa che le mancherà di più?».
«Ti dà fastidio se lo guardo?», chiese Fossati, immaginando che Eva avesse qualche tipo di rimorso per ciò che aveva fatto.
Si sbagliava. Era scura in volto, stanca, ma di certo non inquieta per aver ucciso Zorzi. Ciò che la preoccupava era non sapere come sarebbe finita quella storia.
«La sua sicurezza. Il sapere sempre come affrontare una situazione!», ammiccò Zorzi alla TV.
«Eravate molto legati, giusto? Soprattutto dopo l’incidente di quindici anni fa. Ce ne vuole parlare?». La giornalista sorrise.
La regia mandò in onda alcune fotografie di una motocicletta distrutta e poi un titolo di giornale: Vivo per miracolo ma in gravi condizioni.
«Non c’è molto da dire», si schermì lui. «Ebbi un incidente in moto e mi feci molto male».
«Ebbe bisogno di un aiuto da suo fratello, se mi passa il termine».
«Sì». Zorzi sospirò. «Ebbi bisogno del trapianto di un rene. Mio fratello mi donò il suo! Fu un gesto molto nobile».
«Immagino che gli sarà stato molto riconoscente».
“Che razza di domanda!”. Fossati andò a sdraiarsi vicino a Eva che, nonostante stesse fissando la fotografia tra le sue mani, stava ancora ascoltando la traduttrice.
«Gli devo la vita. E adesso che non c’è più, è bello sapere che una parte di lui è dentro di me».
«I cannoni di Navarone?», la interrogò Fossati, riferendosi alla foto che Eva teneva tra le dita. Sorrideva e aveva detto la prima cosa che gli era saltata in mente vedendo l’immagine. Non gli interessava realmente ma cercava soltanto un argomento di discussione che potesse distrarli per un po’ dai loro problemi.
«Sì», ammise Eva, con aria trasognata. «La mia casa si trova poco distante dalla baia dove hanno girato il film».
Fossati si stupì. Non era un grande esperto di cinema ma si ricordava dei film che vedeva. Quello lo aveva riguardato di recente e osservando la foto gli era tornata in mente una delle scene più famose. Non lo credeva possibile, eppure aveva indovinato.
«Quando sono tesa oppure ho bisogno di rilassarmi vado lì», continuò Eva. «È un posto meraviglioso. Per me è magico. Qualche giorno su quella spiaggia e divento un’altra persona!».
Fossati guardò meglio la fotografia. Si vedeva un cielo azzurro con una nuvola spumeggiante e una baia color verde smeraldo; in alto si scorgevano le case bianche del paese e alcune ville a strapiombo sul mare. Quella in primo piano era fatta di cemento e aveva una superba facciata in vetro. Intorno, si vedevano rocce dorate e oleandri fioriti. Non era la casa con la staccionata bianca che aveva immaginato qualche giorno prima, quella in cui si vedeva con una bimba che lo chiamava papà, però aveva il suo fascino. «Adesso sei tesa?»
«Se fossi lì… diciamo che potrei essere più rilassata», sorrise picchiettando la fotografia. Un piccolo, impercettibile sorriso, ma Fossati decise di cogliere l’attimo.
«Promettimi una cosa…», sussurrò con un filo di voce.
«Dimmi». Lei lo fissò dritto negli occhi. Nonostante fosse stanchissima, illuminata dalla luce ambrata della lampada era bellissima.
«Quando questa storia sarà finita, resteremo insieme».
Sì, avrebbe voluto dire Eva. Con tono amaro, però, replicò diversamente: «Questa storia non può finire bene».
«Ma se finisse bene?», insistette fiducioso Fossati, con il sorriso sulle labbra.
«Se finisse bene, se tutti i cattivi saranno puniti e noi saremo ancora vivi… allora sì, resteremo insieme». Nonostante tutto, l’aveva detto. Si stupì di se stessa. Per quanto remota fosse quella probabilità, l’aveva detto.
«Affare fatto. Se tutti i cattivi saranno puntiti staremo ancora insieme», ripeté Fossati sorridendole. Poi la baciò.
Eva contraccambiò il bacio e prima di spegnere la luce dette un ultimo sguardo al televisore acceso. Guardò distrattamente Luca Zorzi. Non poteva sapere che presto si sarebbe trovata faccia a faccia con lui.