CAPITOLO 79
Bruxelles, Belgio,
sabato 22 febbraio, ore 11:55
Lorenzo Fossati si guardava intorno, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni.
Sulla Grand Place il freddo pungente toglieva il respiro.
“Ci dobbiamo dividere!”. Le parole di Eva, pronunciate tra una scarica di mitra e l’altra, la sera prima, gli rimbalzavano nel cervello. “Insieme non abbiamo scampo! Ci rivediamo domani a mezzogiorno sulla Grand Place”.
Il pubblico ministero era immobile nell’angolo sud del Grote Markt. Accanto a lui una bancarella vendeva piante e fiori; dalla parte opposta si vedevano gli imponenti edifici in stile classico, gotico o tardo gotico. Erano tutti a più ordini, tutti adornati con statue, sculture, guglie e archi, e tutti sporchi di fuliggine.
Fossati guardò l’orologio: mancavano cinque minuti all’appuntamento.
Era molto teso. Era riuscito a fuggire dalla casa di Sophie e Jean François Defour con relativa tranquillità, mentre Eva doveva aver avuto molti più problemi… sempre che ci fosse riuscita.
Dopo la fuga, Fossati aveva riflettuto a lungo: Eva si era sacrificata per loro, per lui. Se lei non avesse agito in quel modo, la bambina sarebbe di certo stata uccisa e con ogni probabilità la stessa fine sarebbe toccata anche loro. Erano salvi solo grazie al suo Cigno Grigio, che aveva tenuto impegnato il commando.
Si chiese se sarebbe arrivata, se fosse riuscita in qualche modo a cavarsela.
Non poteva essere diversamente. Aveva trovato la donna giusta e non gli sarebbe sfuggita così. Eva doveva essere viva e l’avrebbe raggiunto di lì a pochi minuti. A mezzogiorno in punto.
Si guardò intorno nel tentativo di individuarla. Cercò una donna bellissima, con una ciocca di capelli grigi sulla tempia, che camminava verso di lui. Non c’era ancora.
Osservò di nuovo, nervosamente, l’orologio sulla torre e ripensò agli eventi della sera precedente. Dopo essersi rifugiato nella safe room era sceso nel garage con la bambina e Sophie Defour. Pochi istanti prima di entrare nell’ascensore i tre avevano osservato le telecamere che riprendevano l’appartamento: avevano visto i quattro uomini calarsi da un elicottero e piombare nella camera da letto, per poi individuare l’ingresso della stanza blindata. Ma non erano riusciti a sfondare la porta.
Sophie aveva aperto una piccola cassaforte e aveva estratto alcune mazzette di banconote. Poi erano scesi in garage senza incontrare nessuna resistenza. La donna aveva acceso l’auto ed erano usciti dalla strada posteriore.
E adesso era lì, con in tasca un rotolo di biglietti da duecento euro avuti in prestito dalla signora Defour.
«È carta straccia, ormai lo sa, ma li prenda ugualmente», gli aveva sussurrato con un filo di voce, riconoscente per averle salvato la vita. «Insisto! E domani ritrovi la sua fidanzata e sparisca!».
Fossati era stato tentato di rifiutare ma sapeva bene di averne bisogno. Aveva allungato la mano con un sorriso e aveva rassicurato la donna: «È un prestito. Glieli restituirò».
Così aveva passato una notte in albergo, presentando il passaporto falso. E ora era lì, per l’appuntamento.
Erano le dodici in punto e ancora non c’era nessuna traccia di Eva.
Sarebbe arrivata. Ne era sicuro.
Ripensando agli ultimi secondi che avevano trascorso insieme, si era ricordato che lei si era infilata in tasca il fascicolo di Sophie Defour, con i bozzetti delle nuove banconote.
Eva si era preparata una via di fuga. L’avrebbe vista materializzarsi da un momento all’altro. Il suo infallibile istinto gli diceva che non sbagliava.
Cominciò a camminare in tondo, battendo i piedi e scrutando le facce che gli venivano incontro: uomini d’affari, studenti, fattorini, giovani e meno giovani. Vide perfino un signore con la barba rossa e il kilt scozzese. Decine di facce, ma nessuna era quella di Eva.
Attese. Si sedette sul marciapiede e osservò le lancette dell’orologio che facevano prima un giro completo e poi un altro.
Alle due in punto, due ore dopo l’orario dell’appuntamento, si convinse.
Il suo istinto aveva sbagliato.
Era successo qualcosa.
Fossati non considerò minimamente la possibilità che la donna si fosse salvata e avesse deciso di lasciarlo lì da solo, abbandonato al suo destino.
Se non era arrivata, doveva esserle accaduto qualcosa di brutto…
C’era solo un modo per saperlo.
Si incamminò verso Rue de la Colline e salì su un taxi.
«A Ukkel, per favore», ordinò all’autista.
L’auto lo lasciò in Avenue Molière, davanti alla casa di Sophie Defour, poco prima delle tre.
Si guardò attorno: alla luce del giorno il quartiere con i viali alberati e i palazzi a schiera sembrava decisamente più accogliente. Davanti alla casa dei Defour c’erano due auto della polizia e un nugolo di curiosi.
«Cosa è successo?», gemette rivolto a uno degli agenti che sostava nei pressi dell’ingresso.
«C’è stata una sparatoria!». L’uomo fu sorprendentemente loquace ed evitò di mascherarsi dietro parole come “indagine” o “segreto”.
«Addirittura», insistette Fossati. «E ci sono state vittime?».
L’agente non rispose immediatamente. Poi si avvicinò al magistrato, che stava dietro a un nastro, e sussurrando domandò: «È un giornalista?».
Lui sorrise e annuì. Estrasse una banconota da duecento euro e la mise con discrezione in mano all’agente.
L’uomo la prese senza indugio e si guardò immediatamente intorno.
«Quante vittime ci sono?», incalzò Fossati.
«Due al piano terra e una sul tetto del palazzo di fianco».
«Donne o uomini?».
L’agente lo guardò sorpreso. Di tutte le domande che si aspettava dal giornalista, quella era la meno attesa. «Tutti uomini», ridacchiò, ripensando alla banconota appena ricevuta.
Fossati fece un sospiro di sollievo. Eva non era morta. Non lì, almeno.
Ma se si era salvata, perché non era andata all’appuntamento?
In quel momento ebbe la consapevolezza di ciò che, forse, aveva già capito ma rifiutava di accettare: lei lo aveva abbandonato.