CAPITOLO 51

 

 

 

 

 

 

 

Isola di Murano, Venezia,

ore 12:50

 

Mirko Živković non si considerava un criminale da strapazzo.

Era in piedi, intirizzito, sul ponte di un piccolo motoscafo Chris Craft Crowne 26 che saltellava sulla grigia laguna veneziana. Era in Italia da quasi la metà della sua vita ma, fino al 1995, aveva vissuto in Jugoslavia, dove aveva anche combattuto durante la guerra civile.

Figlio unico di un colonnello dell’aeronautica militare e di un’insegnante, aveva avuto un’infanzia come quella di tanti altri suoi coetanei cresciuti nei Balcani. Poi c’era stata la guerra. Giovanissimo, grazie (o per colpa) del padre era stato una delle duemila reclute inviate in Slovenia nel 1991, per rispondere alla dichiarazione d’indipendenza di Lubiana.

Quella guerra era durata soltanto dieci giorni. L’esercito inviato da Belgrado, di cui lui faceva parte, fu vinto non sul campo, dalle armi, ma dalla diplomazia. Grazie all’appoggio del Vaticano, dell’Austria e della Germania, la comunità internazionale si affrettò a riconoscere l’indipendenza slovena e la sconfitta a tavolino dell’Armata Popolare Jugoslava.

La sua guerra, però, era durata ancora molti anni. Le dichiarazioni di indipendenza e i referendum tra gli altri stati che avevano fatto parte della federazione Jugoslava post-Tito si moltiplicarono, così come i fronti per l’esercito regolare serbo.

Nel settembre del 1991, nascondendo la sua omosessualità – che gli avrebbe impedito di servire il suo Paese – fu mandato sul fronte della Bosnia-Erzegovina. Nei cinque anni che seguirono diventò un’altra persona. A Sarajevo, nella guerra più sanguinosa dalla fine del secondo conflitto mondiale, divenne cinico e spietato come mai avrebbe creduto. In quegli anni, ricevette la notizia della morte di entrambi i suoi genitori. Non poté neppure andare ai loro funerali.

 

Piantò le mani nelle tasche del parka imbottito e si strinse nelle spalle. Il vento gelido dell’imbarcazione gli congelava le orecchie e la testa calva. Aveva dei tratti che lasciavano intravedere le sue origini slave e le labbra grezze, sovrastate da due baffetti sottili, di un colore quasi violaceo.

Lucrezia Zorzi era stato un colpo di fortuna. Clienti influenti come lei erano un’ottima cosa per il suo business.

Non era una donna facile, questo lo aveva capito. Sapeva esattamente cosa voleva e sapeva come ottenerlo. L’ultima richiesta era oltre i limiti delle sue attuali competenze, però valeva la pena accontentarla.

Certo, negli ultimi tempi aveva un po’ modificato il suo campo d’azione. Aveva diversificato i suoi interessi e si era avvalso delle molte conoscenze acquisite negli anni della guerra civile. Molti dei suoi amici dell’epoca di Sarajevo, fuggiti dalla guerra, si erano trovati senza un soldo e avevano intrapreso la sua stessa strada: quella del crimine organizzato.

Non lavorava da solo, ma il suo ruolo era in forte ascesa. Aveva il compito di gestire i clienti migliori e consegnare personalmente le bustine trasparenti preparate appositamente per loro. Era roba di qualità e i personaggi facoltosi che si avvalevano dei suoi servigi non si erano mai lamentati. Oltretutto, avere clienti di quel tipo era un’ottima pubblicità.

Aveva conosciuto Lucrezia nel solito modo: il passaparola. Lei aveva domandato a un’amica, che a sua volta aveva chiesto a un altro conoscente. Alla fine l’ordinativo era arrivato a lui. In poco tempo era diventata un’ottima cliente. Tanto redditizia che almeno un paio di volte al mese si faceva duecento chilometri di auto e mezz’ora di motoscafo per andare a fare una consegna direttamente a Venezia.

E questa volta, Lucrezia aveva chiesto un servizio decisamente differente. Lui avrebbe potuto gestirlo in totale autonomia e, certamente, gli avrebbe aperto anche altre porte.

«Non è propriamente il mio core business», le aveva confidato la prima volta, senza alcun accento che rivelasse le sue origini. «Ma lo posso fare. Per lei questo e altro!».

Per uno che aveva combattuto durante la guerra civile, che aveva militato nel partito SPS, che si era sporcato le mani molto più di quanto avrebbe voluto, non era poi un affare così complicato.

Živković abbassò gli occhiali da sole. Il motoscafo stava rallentando. Il frastuono dei duecentocinquanta cavalli del motore diesel, che spingevano l’imbarcazione, diminuì. La schiuma bianca nella parte posteriore si trasformò in uno sciabordio di onde sempre più basse e alla fine il pontile fu davanti a lui.

Saltò sul molo, disse al motoscafista di aspettarlo e si diresse al luogo dell’appuntamento.

La incontrava sempre lì, in una vecchia vetreria abbandonata affacciata sulla Riva Longa, la passeggiata pedonale che attraversa la principale delle sette isole di Murano.

Camminò per un quarto d’ora ad andatura sostenuta. Passò davanti a decine di negozietti di souvenir e poi si infilò in una calle stretta che si inerpicava tra due file di edifici fatiscenti.

Da molti anni, sulle isole di Murano, gli artigiani vetrari erano diventata merce rara. Le vetrerie, famose in tutto il mondo fin dal Duecento, chiudevano una dopo l’altra e quelle che rimanevano si contavano sulle dite di una mano.

A causa della crisi, molti dei capannoni che erano stati utilizzati durante il boom del vetro erano abbandonati. Uno di questi era stato acquistato dal prestanome di una facoltosa donna veneziana: Lucrezia Zorzi.

Mirko Živković tolse il lucchetto, già aperto, con le mani intirizzite. Fece scorrere la porta di metallo ed entrò.

L’interno era gelido, molto più dell’esterno. L’edificio aveva una struttura in muratura annerita dalla fuliggine e un tetto spiovente. Sopra, una fila di lunghe campate arrugginite puntellavano la copertura ed evitavano che crollasse. Era un grande spazio vuoto, illuminato soltanto da alcuni lucernari. In fondo, dalla parte opposta, c’erano alcuni vetri per terra e una finestra dalla quale facevano capolino alcuni piccioni infreddoliti.

L’uomo si richiuse la porta alle spalle ed entrò. L’unico rumore percettibile era il cigolio della suola di gomma delle sue scarpe da tennis.

«Sei in ritardo!», disse una voce di donna, seccata.

Živković guardò l’orologio e poi si voltò. Lucrezia Zorzi era lì, in piedi, le braccia conserte. Indossava dei guanti di pelle e un cappotto nero che le arrivava fino alle caviglie. Poteva avere dieci anni più di lui. Forse arrivava a quarantacinque, ed era una donna bellissima.

«Per farmi perdonare le ho portato un piccolo presente», rispose lui, affabile. Una nuvoletta di condensa gli si formò davanti alla bocca.

Estrasse dal giaccone una busta trasparente che conteneva tre pillole arancio e la porse alla donna. «È roba buona».

«Non siamo qui per questo!», replicò lei, stizzita. Però afferrò la bustina. Poi tirò fuori dal cappotto un sacchetto di carta, lo mise in mano allo slavo e disse: «Contali se vuoi. Sono duemila».

L’uomo prese la busta e se la infilò nel parka. «Quando vuole che sia fatto?»

«Non ho preferenze, mi basta che non sia questa settimana».

«Devo capire come gestire la cosa nel modo migliore».

«I dettagli non mi interessano. Tienili per te!». Lucrezia fece per andare, ma poi sentì il bisogno di una precisazione. «Hai ricevuto i miei messaggi e le mie email?».

Živković sorrise. «Ho tutto quello che mi serve, stia tranquilla».

«Quando il lavoro sarà finito avrai l’altra metà», concluse Lucrezia mentre si avviava verso l’altra uscita. Nel frattempo rifletteva: “Quattromila euro. La vita di una persona è davvero a buon mercato!”.

 

 

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