CAPITOLO 6
Roma, ore 10:40
Venti minuti prima dell’inizio della cerimonia, Carlo Maria Rosati, il ministro dell’Interno, era seduto immobile nel suo ufficio. Sembrava una statua di cera appena uscita dal museo di Madame Tussauds. Teneva le gambe accavallate e guardava fuori dalla finestra. Stava seguendo, con tutta l’attenzione che meritava, il percorso di una nuvola grigia che era venuta a sistemarsi proprio sopra la piazza del Viminale.
D’un tratto scattò in piedi.
Era un uomo con i capelli appena striati d’argento, occhi marrone e fisico asciutto. Calcava i palazzi del potere da un trentennio. Era stato eletto parlamentare da giovanissimo ed era stato più volte sottosegretario alla Giustizia. Per la quarta volta era stato nominato ministro. Dopo le Politiche agricole, la Giustizia e gli Affari comunitari, adesso gli era toccata una delle poltrone più importanti: l’Interno.
Rosati sapeva essere sempre nel posto giusto al momento giusto. Sapeva ascoltare gli altri, riusciva a capire quello che volevano sentirsi dire, e il più delle volte li accontentava recitando il copione che si aspettavano.
Il suo più grande pregio, che in politica era l’arma più importante, era però un altro: essere un lupo travestito da pecora. Sembrava benevolo e di buon comando, sempre al servizio dello Stato e del partito, ma la realtà era che serviva solo se stesso e i suoi ideali.
Si mise a girare per l’ampio ufficio, una grande stanza con la carta da parati rossa e le tende dello stesso colore. Passò davanti ai due candelabri veneziani, sfiorò con la punta delle dita un antico orologio di bronzo e si lasciò cadere sul divanetto settecentesco con i bordi laccati in oro. Passò in rassegna tutte le figure ritratte nell’arazzo sulla parete. Non gliene piaceva quasi nessuna. L’unica, forse, era l’immagine di fronte all’imponente libreria di ebano: una dama seminuda che accarezzava un unicorno bianco.
«Questo sistema non funziona». Le parole di Alberto Zorzi gli risuonavano nel cervello da quattro giorni, esattamente da quando un colpo di fucile lo aveva eliminato dalla scena. «Così non va», gli aveva confidato una settimana prima di morire. «Questo sistema deve cambiare».
Rosati scosse la testa. Zorzi era comunicativo e bucava lo schermo, ma aveva un limite: non aveva mai compreso a fondo i meccanismi della politica.
Di sicuro, però, piaceva alla gente. Proprio per questo la sua ascesa era stata fulminea: da outsider aveva vinto le primarie di Alleanza democratica portando poi il partito a sfiorare il trenta per cento.
La sua campagna elettorale era stata memorabile. Aveva utilizzato tutti quei nuovi mezzi che a lui non piacevano molto. Internet, i social network e una squadra di supporter perfettamente organizzati che avevano spinto la sua candidatura prima al vertice del primo partito d’Italia e poi a capo del governo.
E Rosati, che era in Alleanza democratica da oltre trent’anni, era rimasto al palo.
Ma contro Zorzi non c’era stato nulla da fare. Non c’era speranza di vittoria. Lui l’aveva capito prima degli altri ed era salito subito sul carro del vincitore. Se non poteva essere il numero uno, valeva la pena mettergli a disposizione la sua esperienza.
Così, dopo le elezioni, Carlo Maria Rosati era stato ripagato andando a occupare il prestigioso ufficio del ministro dell’Interno in piazza del Viminale.
E adesso Zorzi era morto e la ruota ricominciava a girare: bisognava pensare al dopo.
La questione della successione nel partito andava affrontata da subito e nel modo migliore. Questa volta lo scettro toccava a lui, anche se c’era un’incognita: Luca Zorzi, il fratello di Alberto. Era l’astro emergente nel partito e giovane sindaco di Venezia. Sarebbe stato davvero un problema? Per evitare sorprese doveva sfruttare tutte le carte che aveva in mano. Ma quella era la sua specialità. Afferrò il cellulare, compose il numero del generale di corpo d’armata Cesare Baldacci, direttore dei servizi segreti, e attese.
«Pronto», grugnì una voce con spiccato accento del Sud.
«Sono Rosati».
«Illustrissimo…», fu la risposta ossequiosa della voce. «Stavo per chiamarla io», mentì Baldacci. «Tutto bene, tutto bene».
«Generale…», l’interruppe Rosati, «come immaginerà abbiamo bisogno di risultati, non possiamo permetterci che l’opinione pubblica resti senza un colpevole».
L’opinione pubblica, aveva detto. Non Alberto Zorzi.
«Non si preoccupi. Sto pensando a tutto io. Sono a stretto contatto con le autorità tedesche. Appena ci saranno sviluppi sull’indagine sarà il primo a saperlo».
«Ma quali novità ci sono?», chiese, irritato. «Si è capito da dove hanno sparato?»
«Guardi…». Baldacci indugiò. «Ministro… al mio paese si dice “tempo al tempo”. Queste cose vanno affrontate con la giusta impostazione. Finora non ho interferito con i colleghi tedeschi, ma se lei crede posso sollecitare…».
Rosati sospirò. “Pulcinella”, com’era soprannominato, era un cretino e si stava dimostrando tale. Non aveva in mano nulla. «Senta generale, mi chiami quando avrà novità. Non possiamo aspettare troppo, lei capisce».
E Baldacci, che a dispetto della fama di cui godeva, non era affatto uno stupido, capiva eccome: entro pochi giorni il presidente della Repubblica avrebbe dovuto cominciare le consultazioni per designare il nuovo capo del governo. Rosati, che fino al giovedì precedente era il numero due di Alleanza democratica, sarebbe stato l’ultimo a essere sentito, visto che dopo la morte di Zorzi era diventato, di fatto, capo del primo partito. Per quel giorno avrebbe dovuto avere il nome del colpevole: un jolly in mano che gli avrebbe consentito di ricevere consensi da parte degli scettici del suo partito e forse anche da parte dell’opposizione. Con quel pacchetto di potenziali voti in Parlamento, il presidente della Repubblica gli avrebbe affidato l’incarico di formare il nuovo governo.
«Ministro, non si preoccupi. Ho capito perfettamente. Penso a tutto io», concluse Baldacci, davvero convinto di poter essere utile al potente di turno.
Rosati lanciò il cellulare sul divano e poi dette uno sguardo all’orologio. Mancava poco al funerale.
Si sistemò il nodo della cravatta e si avviò alla porta, ma mentre ne afferrava la maniglia il telefono privato sulla scrivania, quello di cui soltanto poche personalità avevano il numero, squillò.
“Di già?”.
Rosati tornò indietro, fece un sospiro profondo e rispose.
Pochi minuti dopo, a mille chilometri di distanza, il cellulare di Thomas La Forte squillò.
L’ex capo della scorta di Alberto Zorzi si trovava in una delle sale di lettura dell’antica biblioteca del Rathaus, una stanza piccola, con scaffali in ferro e libri polverosi su tutte le pareti; si era fermato a Monaco di Baviera per collaborare con la polizia tedesca, che proprio in quel momento stava effettuando importanti rilievi balistici.
«Abbiamo novità?», esordì squillante Cesare Baldacci. La sua voce metallica proveniva dal grande piazzale della Basilica di San Giovanni in Laterano, gremito di gente fin dall’alba. Dopo avere conquistato un’ottima posizione all’interno della cattedrale, dalla quale, una volta iniziata la cerimonia funebre, sarebbe stato in grado di stringere le mani a tutte le personalità presenti, Pulcinella era stato costretto a uscire per fare quella telefonata. Era intenzionato a esercitare ogni tipo di pressione per avere risultati in fretta.
«Le indagini stanno progredendo!», spiegò La Forte, che poi rassicurò l’interlocutore sul fatto che stavano facendo tutto il possibile. Baldacci sembrò convincersi velocemente, forse complice l’imminente inizio del funerale. Salutò cordialmente e poi chiese di essere avvisato non appena ci fossero state novità.
La telefonata durò complessivamente meno di novanta secondi. Una volta chiusa la comunicazione, l’ex capo della PES sospirò. Si infilò in tasca il cellulare e si avvicinò ai colleghi tedeschi appostati nei pressi di una imponente scrivania di mogano.
«Ci siamo», sibilò Rudolf Ottl, il responsabile della task force che aveva il compito di trovare l’assassino del presidente del Consiglio italiano.
Visti uno accanto all’altro, La Forte e Ottl davano l’impressione di una matrioska: entrambi avevano un fisico tondeggiante, simile a quello di un lottatore di sumo, e l’italiano era la versione in miniatura del tedesco.
«Ha sparato da qui», proseguì l’agente del BKA – il Bundeskriminalamt, l’ufficio federale della polizia criminale – guardando il cortile sottostante attraverso la finestra.
Nonostante fosse ostruita dal grande tavolo addossato alla parete, era l’unica apertura che dava luce al locale. Il vetro era integro, fatta eccezione per un foro circolare, nella parte bassa, del diametro di una pallina da tennis. Sembrava lo sfiato del condizionatore, ma non vi era alcun tubo collegato.
Dietro di loro, tre agenti stavano prendendo le impronte su uno scaffale e una donna fotografava i particolari attorno alla finestra.
La Forte si sporse per vedere meglio. In effetti era plausibile. L’angolazione era compatibile con la direzione del proiettile che aveva ucciso Zorzi.
«La balistica ce lo confermerà», dichiarò eccitato Rudolf. «Posso scommetterci. Ha infilato il fucile e ha sparato attraverso il buco».
“Come cavolo avete fatto a permettere che l’assassino arrivasse qui indisturbato? E come cavolo avete fatto a farvelo scappare?”. Due domande molto ovvie. La Forte le aveva sulla punta della lingua, ma si astenne dal pronunciarle.
E in effetti la cosa era decisamente strana. L’edificio era stato controllato più volte, anche nei minuti precedenti la visita. Tutti i dipendenti erano stati mandati a casa un giorno prima e a ogni piano erano stati dislocati più agenti della PES.
«Di sicuro, se hanno sparato da questa posizione, devono per forza essere entrati e usciti dalla porta principale», disse infine La Forte. «E se qualcuno fosse uscito con un fucile l’avreste individuato immediatamente».
Il tedesco strizzò gli occhi e poi rispose secco: «Questo significa solo una cosa, Thomas… l’arma non è uscita con l’assassino».