CAPITOLO 13
Ore 12:50
La Lancia Thesis blu con il lampeggiante acceso si immise nella circonvallazione e aumentò la velocità. Il funerale era terminato da poco e Luca Zorzi era pensoso. Si era seduto dietro all’autista e si era lasciato sprofondare nel morbido sedile di pelle.
Mentre rigirava tra le mani una spilla con il logo di Alleanza democratica, diede uno sguardo fugace al tablet di Lucrezia, che era seduta di fianco a lui.
“SPS64?” Il programma di posta elettronica era aperto ma non riusciva a leggere bene l’indirizzo. A chi stava scrivendo?
Distolse lo sguardo. Da diversi giorni aveva un pensiero fisso. Era possibile che Lucrezia lo tradisse? Quel rimanere attaccata a suoi gingilli elettronici poteva essere un indizio?
Sorrise tra sé. Era una follia. E ancora più folle era che fosse proprio lui a pensarlo… senza sentirsi minimamente in colpa. Si sforzò di allontanare quel pensiero, dopotutto avevano appena seppellito Alberto!
«Che impressioni hai avuto?». Zorzi fissò un punto indefinito fuori dal finestrino. Le quattro corsie dell’autostrada, alberi e qualche arbusto secco scorrevano veloci nella pioggia. «Rosati ha parlato con tutti. Ha ringraziato e stretto tutte le mani. Sembrava il matrimonio della figlia, non il funerale di Alberto».
Zorzi si voltò. I capelli, corti e solitamente perfettamente pettinati, erano un po’ arruffati e la cravatta era allentata sul collo. Le sorrise. Il solito sorriso affabile e rassicurante che piaceva alla gente: inarcava leggermente le labbra per mostrare solo una parte degli incisivi bianchissimi e accompagnava il tutto con lo sguardo. Di solito, guardava il suo interlocutore dritto negli occhi e sbatteva le palpebre come un cerbiatto. Non adesso però, la sua espressione rassicurante da bravo ragazzo era stanca, sbiadita. Nonostante il sorriso, aveva uno sguardo spento.
«Può parlare con chi vuole!». Lucrezia spense lo schermo del computer e alzò gli occhi neri in direzione del marito. Era una splendida quarantenne, con la pelle ambrata, il naso diritto e i capelli neri che le sfioravano le spalle. «Però il futuro sei tu. Gli elettori di AD sono stanchi di leader sessantenni!».
«I Circoli mi appoggeranno!», dichiarò il politico.
«L’idea di radicare il partito attraverso Circoli e dare spazio ai giovani è stata un’idea di tuo fratello! Certo che ti appoggeranno». Lucrezia allungò la mano e sfiorò quella del marito.
Lei era così, non si dava mai per vinta. Forse non erano più uniti come un tempo ma senza il suo aiuto, probabilmente non sarebbe stato il sindaco di Venezia… né l’aspirante leader di AD.
I Circoli di Alleanza democratica erano stati una delle idee di Alberto Zorzi. Gli erano serviti per coinvolgere maggiormente gli iscritti al partito e per fare emergere, attraverso il meccanismo delle primarie, nuovi dirigenti a lui fedeli da sistemare tra le cariche di rilievo del territorio.
Le vecchie volpi però, quelli già iscritti da un trentennio al partito, non erano stati d’accordo. Con i Circoli, qualche membro storico rischiava di perdere seggi ben retribuiti a vantaggio di giovani eletti all’interno del movimento.
Per mediare le due anime, Zorzi aveva fatto una scelta salomonica. Aveva individuato come coordinatore unico dei nuovi Circoli uno degli appartenenti all’area dei conservatori. I mugugni erano rimasti, ma il progetto era proseguito. Grazie ai Circoli, nelle precedenti elezioni amministrative Alleanza democratica aveva guadagnato due punti percentuali.
«Però non posso essere io a uscire allo scoperto. Dobbiamo prima vedere che pedine muove Rosati».
La moglie sembrò dubbiosa. «I passi per adesso sono obbligati. Il presidente della Repubblica dovrà dare l’incarico per formare il nuovo governo. Comincerà le consultazioni a breve, ma AD sarà l’ultimo partito a salire al Quirinale».
«Essere il primo partito d’Italia ha i suoi vantaggi». Una smorfia si dipinse sul viso di Zorzi. «Abbiamo un po’ più di tempo, ma non troppo».
«Devi considerare che Rosati e Pulvirenti sono in ottimi rapporti», osservò Lucrezia.
«Secondo te è possibile che gli affidi l’incarico anche se non c’è ancora stato il congresso? Dopotutto il Paese ha bisogno di un governo…».
«Bisogna tenere gli occhi aperti!», lo avvertì la moglie, passandosi la lingua sulle labbra. «Bisogna trovare qualcuno che parli con il presidente Pulvirenti».
«Qualcuno che lo convinca ad aspettare che Alleanza democratica abbia un segretario eletto democraticamente», continuò il marito. «Cosa ne pensi di Mary Capraro?».
Lucrezia sapeva poco di lei. Era la coordinatrice dei Circoli di Alleanza democratica ed era stata una cara amica di Alberto Zorzi. «Ti fidi?»
«No!», rispose secco Luca Zorzi. «Però calpesta i corridoi dei palazzi romani da prima che io nascessi. E se mio fratello l’aveva scelta significava che si fidava».
Zorzi estrasse il cellulare proprio mentre la macchina imboccava una rampa autostradale molto trafficata.
Più o meno nello stesso istante, in un imponente palazzo con vetrate a specchio, al 1548 di via Tuscolana, un giovane crittografo richiamò sullo schermo piatto del suo PC la fotografia sul cadavere del Tevere.
Si trovava nel seminterrato della direzione centrale anticrimine della polizia di Stato dove aveva sede la Scientifica.
Valerio Pina era sempre stato considerato un bravo ragazzo. Andava bene a scuola, non fumava, non beveva, frequentava amici di buona famiglia ed era adorato dai suoi genitori. Aveva ventiquattro anni, un aspetto da playboy e un lavoro che gli piaceva. Era un ragazzo sveglio e sapeva di esserlo, ma nella vita, per adesso, era stato più fortunato che bravo. Anche la delega come ausiliario di polizia giudiziaria, che l’aveva portato lì quella mattina, era stata una felice coincidenza. Appena laureato era stato contattato, attraverso la segreteria dell’università, da un magistrato alle prese con un caso in cui servivano conoscenze in ambito di crittografia e codici cifrati. In pochi avevano le competenze richieste. Lui sì, e in quel modo aveva ottenuto il suo primo incarico a supporto della polizia Scientifica. In quell’occasione si era rivelato una risorsa preziosa e così, quando la Procura aveva a che fare con codici da decifrare, lo richiamava sempre. Come quel giorno.
Lupatelli, l’ispettore capo, non gli piaceva affatto: lo trovava borioso, invadente, spaccone e incompetente. Il lavoro però era bello e lo interessava, così come il rebus che aveva davanti.
A causa della scoperta del polonio, che aveva monopolizzato l’attenzione di tutti, era riuscito a dedicarsi alla foto di quel tatuaggio solo per pochi minuti.
Al primo sguardo avrebbe giurato che fosse scritto in ebraico ma il software OCR – Optical character recognition, cioè di riconoscimento dei caratteri – aveva dato risultati inconcludenti, riuscendo a isolarne pochissimi. Così aveva spedito la fotografia al perito linguistico della polizia. Se era davvero scritto in alfabeto abjad, l’esperto sarebbe stato in grado di tradurlo.
Mentre attendeva che dall’email arrivassero buone notizie, osservò nuovamente l’immagine sullo schermo
Niente.
Guardò Cécile, che era seduta immobile a una consolle. A parte il naso “da chirurgo plastico” nel complesso era una bella ragazza. Minuta, fine e gentile nei modi. Non era ancora caduta tra le sue braccia ma Pina contava di conquistarla presto, anche se lei sembrava pensarla diversamente.
Si sgranchì le gambe e stirò il collo.
Poi, una folgorazione.
Di fronte a lui c’era l’armadio di un server. Era fatto di metallo ma la parte anteriore aveva una porta di vetro.
All’interno si vedevano dispositivi di rete, LED luminosi lampeggianti, cavi colorati e fibre ottiche.
Ma non fu il contenuto dell’armadio ad attrarre la sua curiosità, bensì un riflesso.
Pina cominciò a ridere di gusto, scuotendo la testa.
Cécile si voltò di scatto, incuriosita.
«Come ho fatto a non pensarci?», disse il giovane, avvicinandosi al vetro.
Il monitor del computer si rifletteva nell’anta dell’armadio e così il tatuaggio. Per la maggior parte restava incomprensibile, ma almeno l’ultima riga gli pareva di riuscire a leggerla.
Possibile fosse così semplice? Perché non se ne era accorto prima?
Il tatuaggio era stato disegnato al contrario, quindi nel riflesso appariva diritto: