CAPITOLO 39
Copenaghen, Danimarca, ore 23:00
Eva stava in precario equilibrio sul cornicione scivoloso.
Si era infilata la piccola pistola Glock 29 nella cintura dei jeans e teneva in mano il computer portatile. Aveva le mani gelate. Il freddo le aveva arrossato la punta aguzza del naso e le aveva dipinto sulle guance bianche due macchie rosse grandi come albicocche.
Oltre i tetti del Nyavin 17 si intravedeva il molo. Le imbarcazioni ondeggiavano battute dal vento e sugli scafi bianchi e lucenti si rifletteva la luce della luna.
Guardò giù. Sotto di lei la strada era stretta e quegli uomini stavano entrando nel negozio. Si muovevano in formazione.
Si mosse lentamente, per paura di scivolare. Percorse tutto il cornicione, appoggiata al muro, e arrivò al tetto di un palazzo che era appena più basso del suo.
Alzò lo sguardo: oltre le sommità degli edifici, una nuvola stava passando davanti alla luna. Nonostante tutto si vedeva abbastanza. Fece un salto e atterrò sulle tegole scoscese.
Poi un rumore. Uno sparo lontano, dentro il negozio. Il computer le sfuggì di mano, e rimase incastrato tra le tegole. Lei non ebbe la stessa fortuna: mise un piede in fallo e ondeggiò in avanti. Quell’attimo le parve interminabile, lo stivale perse aderenza e cominciò a scivolare. Giù, sempre più giù, verso il baratro.
Pochi istanti prima, l’anziano scattò in piedi.
Non stava dormendo. Era nel letto con le gambe coperte da un plaid a quadri e rifletteva. Nel frattempo, assaporava la pipa e teneva lo sguardo fisso sulle travi del soffitto.
Eva era tornata e stava al piano di sopra. La sentiva, di tanto in tanto, camminare avanti e indietro. Era agitata.
Il suono fu inconfondibile: sordo e secco. Era uno sparo con silenziatore, probabilmente alla serratura della porta.
Seguì un cigolio e poi un altro ancora. Qualcuno era entrato.
Si avvicinò all’armadio. Lo aprì e ne estrasse una carabina che custodiva lì da mezzo secolo.
Nonostante l’età dell’arma era perfettamente in grado di sparare. Come tutti i mobili e i quadri nel negozio di antiquariato, anche quel fucile aveva avuto tante esperienze prima di finire tra le sue mani. Poi, lui gli aveva dato nuova linfa, lo aveva restaurato e l’aveva fatto diventare un oggetto nuovo, pronto per una nuova avventura.
Caricò l’arma, divaricò le gambe e la puntò contro la porta.
Il commando si muoveva furtivo tra i mobili antichi. Nonostante gli otto uomini della squadra d’assalto cercassero di non fare troppo rumore, il pavimento in legno continuava a cigolare.
Indossavano pesanti parka scuri con cappuccio. Sotto, avevano passamontagna neri, giubbetti antiproiettili, visori notturni, scarponi, maschere e guanti in kevlar.
Le piccole pistole mitragliatrici Heckler & Koch, che avevano tenuto nascoste fino a un attimo prima di entrare, erano adesso ben in vista.
«Libero», bisbigliò uno degli uomini. Con un ampio gesto delle mani indicò agli altri di muoversi dalla parete opposta alla sua.
Il negozio era diviso in due da un grande bancone in cristallo. La squadra si mosse all’unisono, si divise equamente e andò a occupare tutti gli spazi liberi del locale, quasi come avrebbe fatto un secchio d’acqua versato sul pavimento.
Oltre il bancone, addossata a un muro carico di dipinti, c’era la scala in legno che saliva al piano di sopra. In fondo, seminascosta da una credenza di inizio secolo, c’era una porta.
«Di qua!», ordinò un altro. «Ripulite tutto!».
«Sessanta secondi!», scandì una voce negli auricolari degli aggressori.
Lo sparo, fragoroso, rimbombò nel silenzio. La porta fu disintegrata e rivelò un anziano con un fucile fumante.
Uno degli uomini cadde rovinosamente a terra.
Poi un nuovo sparo.
Il vecchio, che indossava ancora la giacca da camera e che teneva stretta tra i denti la pipa, sparò nuovamente. Due colpi, tre.
Gli aggressori furono presi di sorpresa.
Il primo a essere colpito si toccò il giubbetto antiproiettile e si alzò dolorante.
Poi una raffica di mitra, diretta verso il soffitto e proveniente da dietro.
Fu quasi un rumore di metallo arrugginito. Sembrava una sega elettrica che si accinge a tagliare un ceppo di legno.
L’anziano rimase immobile.
Volevano spaventarlo?
«Lei dov’è?», domandò l’aggressore con un tono tutt’altro che amichevole.
Il vecchio non rispose. Caricò l’arma e fece fuoco di nuovo, poi si riparò dietro lo stipite.
Lo sparo andò a vuoto e fu seguito da una nuova scarica di mitra.
«Non importa!», gemette l’aggressore che aveva sparato. «Sapete cosa fare!».
Il vecchio ansimava.
Guardò il soffitto, poi sentì alcuni passi pesanti sopra di lui. Erano saliti al piano superiore.
Si spostò di qualche passo, poi udì un’altra scarica di mitragliatrice. Dalla parete saltarono via alcuni calcinacci.
«Basta!», ingiunse uno dei passamontagna neri. «Limitiamoci al necessario!».
Si voltò a sinistra, verso la porta. Non arrivò nessuno.
Sapeva di non essere il bersaglio, ma non poteva certo sperare di impedire che arrivassero a lei.
«Lì, lì e lì. Piazzatele anche lì!», ordinò una voce.
Cosa stavano facendo? Perché non arrivavano?
Sulla scala in legno si sentirono altri passi.
L’anziano strinse a sé la carabina e si acquattò dietro l’armadio.
Silenzio.
Poi ancora passi verso di lui.
Nessuno entrò, però vide un piccolo oggetto cilindrico rotolare nella camera.
Il tempo di un respiro e le fiamme divamparono: una bomba incendiaria.
Una nube di fumo nero e puzzolente si diffuse nel locale con una velocità sorprendente. In pochi istanti le fiamme arrivarono al soffitto.
I quadri… i mobili… le credenze…
«Di sopra non c’è!», riuscì a udire.
«Ok, sarebbe stato troppo facile! Limitiamoci al piano».
Pochi istanti dopo si udì un colpo secco. Un secondo e un terzo botto.
Poi altre fiamme, più cattive e assetate di ossigeno e materiale da ardere, cominciarono a farsi largo tra i mobili antichi del negozio.
Eva stava cadendo.
Cercava di aggrapparsi, con le dita congelate e con le unghie, ma le tegole del tetto, bagnate e battute dal vento, continuavano a farla scivolare sempre più giù.
Puntò uno stivale ma non successe nulla. Riprovò ancora a bloccare la caduta con il tacco e ottenne il solo effetto di far saltare via una fila di tegole, che rotolò giù per la facciata.
Cercò di aggrapparsi a uno spuntone di ferro che usciva dal tetto. Sentì un dolore lancinante, ma non riuscì a fermarsi.
Due metri dal vuoto.
Non si dette per vinta, prima cercò di afferrare con le dita le sporgenze delle tegole e poi tentò di nuovo di puntare i piedi. Ancora niente. Come una tartaruga ribaltata, si agitava freneticamente ma senza ottenere alcun risultato.
Mentre cadeva le facce delle sue vittime le passarono davanti come tanti flash.
Un metro dal vuoto.
Non doveva finire così: solo Yaniv doveva morire e invece anche lei stava per fare la stessa fine.
Le gambe nel vuoto. Era finita.
Provò un’ultima volta a fare presa con le mani, ma invano. Poi, improvvisamente, accadde qualcosa: senza sapere esattamente come, le dita trovarono un appiglio.
Si ritrovò a ondeggiare nel vuoto, aggrappata al canale di scolo. Cercò di afferrarlo anche con l’altra mano, provando a tirarsi su, ma qualcosa si ruppe.
Uno scossone verso il basso la catapultò lontano dalla facciata, ma la sua caduta si interruppe quasi subito. Tirò un sospiro e poi alzò lo sguardo verso il tubo di rame che si frapponeva tra lei e il baratro: si era staccato dal tetto e adesso sporgeva dal palazzo, collegato al muro solo in un punto.
Fece appena in tempo a guardarsi intorno che il pluviale, ormai sul punto di spezzarsi, si incrinò e si piegò su se stesso.
Non aveva via di scampo, sarebbe caduta inesorabilmente nel vuoto.
“Obiettivo sacrificabile”, pensò. Stava per fare la stessa fine di Yaniv.
Un istante dopo vide le fiamme divampare dall’edificio.