CAPITOLO 1
Bruxelles, Belgio,
lunedì 17 febbraio, ore 08:30.
Quattro giorni dopo l’attentato
Mentre precipitava dal quinto piano di un edificio in vetro e acciaio, Jean François Defour non pensava a nulla.
Contrariamente a ciò che aveva sempre immaginato, la sua vita non gli passò davanti agli occhi in un istante. L’unica cosa che invece provò fu una grande pressione sullo stomaco, come se un gigante invisibile cercasse di farglielo riemergere a forza dalla gola.
Vide scorrere ritmicamente le finestre a specchio dei grattacieli di Bruxelles. Gli sfilarono accanto i vetri del palazzo Justus Lipsius dal quale stava precipitando, e osservò impotente l’avvicinarsi inesorabile dell’asfalto di Rue de la Loi.
Mentre cadeva sentiva un lieve fruscio, come di lenzuola stese ad asciugare al vento: era il rumore della giacca svolazzante che si opponeva alle leggi di Newton.
Aveva quarantadue anni, pochi capelli sulla testa, un collo lungo e un fisico magro e ossuto. Nel complesso, se si considerava anche la pelle costantemente pallida, si poteva dire che portava decisamente male la sua età.
Era felicemente sposato con Sophie, una brillante economista come lui, ed era padre di Ann Marie, una splendida bambina che avrebbe compiuto quattro anni la settimana successiva.
Lavorava nella sede del Segretariato Generale del Consiglio dell’Unione Europea, da sempre. Quello era stato il suo primo e unico lavoro, fin da quando era uscito dal dipartimento di Economia della Oxford University con una laurea e, soprattutto, con una moglie con la quale condivideva gli stessi interessi.
Il suo compito, al quinto piano del complesso che si trovava di fronte al palazzo Berlaymont della Commissione Europea, era quello di consulente a beneficio della presidenza del Consiglio dell’Unione. Doveva spiegare a politici spesso incompetenti tutti gli aspetti giuridici relativi alle normative europee, ai vincoli di bilancio, alle regole del mercato e talvolta al funzionamento del sistema monetario.
Il più delle volte non aveva un unico interlocutore. Gli capitava spesso di parlare con vari ministri, proprio perché il funzionamento delle istituzioni comunitarie prevedeva che la carica di presidenza (della durata di sei mesi) fosse esercitata dall’intero governo del Paese di turno.
Quella volta però le cose erano andate diversamente, aveva avuto a che fare solo con Alberto Zorzi: un uomo diverso, conoscitore del sistema macroeconomico e soprattutto con le idee ben chiare.
In poco tempo erano diventati intimi. Defour non l’aveva mai pronunciata, ma la parola amici era quella che secondo lui meglio definiva il loro rapporto.
Ironia della sorte, proprio nel giorno in cui la bara di Alberto Zorzi stava per essere seppellita, lui precipitava dalla finestra del suo ufficio agitando le braccia.
Ovviamente, non poteva immaginare quello che sarebbe successo in seguito e di sicuro non gli interessava.
Prima o dopo, gli uffici sarebbero tornati alla normalità e l’efficiente squadra della manutenzione di palazzo Justus Lipsius si sarebbe messa al lavoro per far scomparire l’inquietante macchia di sangue sul marciapiede; avrebbe sostituito il vetro a specchio dell’ufficio e provveduto a riordinare gli armadi e la scrivania.
Mani molto esperte avrebbero controllato tutti i cassetti e, prima di svuotarli, avrebbero messo da parte un piccolo fascicolo rilegato con la scritta “riservato”. Probabilmente, avrebbero trovato anche la ricevuta di pagamento di una recente spedizione ma, non potendo risalire né al mittente né al destinatario, l’avrebbero archiviata senza darle importanza.
La polizia belga, poco dopo, avrebbe esaminato il suo computer, le sue carte e i sui effetti personali e poi, con ogni probabilità, avrebbe catalogato il caso come suicidio dovuto a depressione.
Un attimo prima di toccare l’asfalto gelato, Jean François Defour sospirò nel pensare che non avrebbe più visto il sorriso di Ann Marie.