CAPITOLO 7

 

 

 

 

 

 

 

Roma, ore 10:45

 

Il laboratorio della Scientifica era in subbuglio.

Il cadavere del Tevere era sdraiato su un tavolo d’acciaio in una sala che aveva l’aspetto di una cripta. Il soffitto, formato da varie cupole, era retto da imponenti colonne di pietra calcarea collegate tra loro da ampi archi a tutto sesto. Lungo le pareti c’erano alcune scanalature con mattoni a vista: tutti elementi architettonici che si mescolavano in un mix di antico e moderno con le postazioni informatiche del laboratorio.

Nei locali adiacenti, oltre una porta blindata e un vetro panoramico, era appena cominciato l’esame del DNA. Nel frattempo, il software di riconoscimento facciale era in esecuzione. Migliaia di volti scorrevano uno dietro l’altro, per verificare se in qualche database ci fosse corrispondenza con il corpo al di là del vetro.

Per gli occupanti del laboratorio, però, la fonte di agitazione era un’altra. Due operatori guardavano una fila di monitor LCD che riportavano gli strani esiti di un accertamento appena eseguito. Nei loro sguardi, un misto di sorpresa e paura.

«Cerchiamo di mantenere la calma», proclamò una giovane agente, mentre con lo sguardo diceva l’esatto opposto.

Lorenzo Fossati era immobile dietro di loro con le braccia conserte. Era stato chiamato poco prima dalla voce preoccupata di Paolo Lupatelli, che adesso se ne stava in silenzio appoggiato all’armadio di un server.

L’ispettore capo della Scientifica indossava un camice bianco chiuso da un solo bottone e una camicia con cravatta. Si grattava la tempia rasata a zero per nascondere una calvizie che lo perseguitava fin da giovanissimo. «Siamo sicuri che non corriamo pericoli?», domandò a bruciapelo.

«Il polonio 210 è un isotopo radioattivo altamente tossico». La ragazza si chiamava Cécile Cissé e, nonostante fosse in Italia da quando era ragazzina, aveva ancora un forte accento francese. «Però non emana radiazioni pericolose per l’uomo», chiarì.

Fossati annuì ma non sembrava troppo convinto.

«Diventa letale solo quando viene ingerito, bevuto o inalato», precisò Valerio Pina, il più giovane dei quattro, a beneficio del pubblico ministero. Era un ausiliario di polizia giudiziaria esperto in crittografia e si dondolava su una poltroncina con le rotelle. Aveva parlato senza distogliere lo sguardo dal monitor che inquadrava lo strano tatuaggio del cadavere. «Oppure quando entra a contatto con una ferita…».

«È possibile che…». Lupatelli indicò l’immagine sullo schermo. «Che il polonio sia stato iniettato in quelle cicatrici? Sono recenti, giusto?». Di solito dava l’impressione di essere una persona molto sicura di sé. Non quella mattina però. La scoperta della strana sostanza nel corpo del cadavere del Tevere l’aveva assolutamente destabilizzato, sembrava appena sceso dalle montagne russe.

Lavorava nella polizia Scientifica da oltre vent’anni e, grazie soprattutto al padre, giudice penale in pensione, aveva acquisito il grado di ispettore capo in tempo record.

Passava per essere un tipo sveglio ma con poca voglia di fare. La sua filosofia, che fino ad allora era risultata vincente, era tenere un profilo basso e rimanere in silenzio. Aveva capito, prima di altri, che per fare carriera lavorare di più del necessario non era una cosa utile allo scopo.

“Tanto nessuno ti dice grazie”.

Bastava fare il giusto per le persone giuste. Sapeva che la politica muove tutti i fili della vita e da sempre aveva cercato di assecondare i voleri del politico di turno, a volte di destra, altre di sinistra.

L’importante era farsi notare il meno possibile, e il polonio 210, sotto quell’aspetto, era un grosso problema.

“Una fottuta grana di proporzioni bibliche”, aveva pensato appena Cécile, la moretta con il naso adunco, gli aveva telefonato. Poi lui aveva chiamato Fossati.

A dire il vero, al telefono non gli era sembrato che il titolare dell’indagine avesse colto tutte le sfumature della questione. Non era un bene, soprattutto se sperava che la patata bollente – che avrebbe certamente coinvolto i servizi segreti – passasse subito nelle mani del magistrato.

Nella mente gli rimbalzavano scenari poco rassicuranti: la parola AISE, acronimo che identificava i servizi segreti, continuava a martellargli le tempie, così come il suo dito l’indice, che non aveva smesso un secondo di muoversi.

«Per quanto ne sappiamo ora, non si può escludere nulla», proseguì Cécile. «Di certo è un elemento molto raro. Si può dissolvere in acidi ma è abbastanza volatile».

«Quindi è sicuramente compatibile con un qualche tipo di inchiostro usato per il tatuaggio», sentenziò Fossati fissando la donna.

Lupatelli lo osservò: era impassibile. Non sembrava affatto preoccupato.

«È possibile!», assentì la giovane agente. «Però non si tratta di una sostanza facile da maneggiare e da reperire. Chi lo ha preparato doveva necessariamente disporre di attrezzature altamente sofisticate, forse un laboratorio specializzato in esperimenti sulla radioattività».

«Il problema più grosso è che l’intossicazione da polonio 210 distrugge il DNA!». Valerio Pina, che per primo aveva individuato il composto, si alzò dalla poltrona e andò a prendere un tomo voluminoso nella libreria sotto l’abbaino. «Le sue particelle sono in grado di frammentarlo, impedendo la divisione cellulare. In pratica, il comando cellulare che regola il nostro corpo viene messo fuori uso», incalzò leggendo una pagina che aveva già studiato più volte prima dell’arrivo del magistrato. «Però la morte interviene in tre o quattro settimane. A volte di più!».

«Ma…». Fossati si staccò dall’armadio e si avvicinò al monitor di Pina. «Non avete detto che le ferite di quel tatuaggio sono recenti?».

“Bingo”. Lupatelli sospirò, il PM aveva capito. Meglio così, la patata bollente sarebbe passata a lui.

«Esatto». Pina fece una smorfia, poi osservò Cécile, che casualmente abbassò lo sguardo. Gli era sempre piaciuta e, fin dalla prima volta in cui aveva messo piede in quel laboratorio, aveva cercato di far colpo su di lei. «È proprio questo il problema».

«Mi state dicendo che non è morto per il polonio?», indagò Fossati, scuotendo la testa. «E allora di cosa è morto?»

«La causa non è immediatamente rilevabile», rispose la francese. «Non ha acqua nei polmoni, quindi non è affogato, non ci sono fori di proiettile e non ha ecchimosi da strangolamento. Stiamo aspettando l’esito dell’esame tossicologico… forse potremmo trovare lì una risposta».

«Un altro veleno, forse?», azzardò Lupatelli, sarcastico. «Di bene in meglio!».

A tutto avrebbe pensato, tranne che il cadavere di quella mattina gli potesse procurare così tanti problemi. Lui era il tipo di persona a cui piacevano le cose facili non… morti avvelenati che non erano morti per il veleno.

«Si chiamava Green, giusto?», chiese il PM. «David Green, ed era israeliano, giusto?». Indicò il corpo oltre il vetro.

Paolo Lupatelli deglutì mentre pensava alle implicazioni di quel caso.

Nonostante tutto, nonostante il suo stipendio fosse un terzo di quello di Fossati, lo riteneva una persona in gamba. Erano sempre andati d’accordo. Aveva fatto bene a chiamarlo immediatamente? Gli avrebbe scaricato addosso quella seccatura o l’avrebbe affrontata?

Lo osservò mentre si mordicchiava il labbro inferiore, evidentemente stava riflettendo su cosa fare.

Prima che potesse rispondergli, un suono discreto proveniente dalla consolle del riconoscimento facciale attirò l’attenzione dei presenti.

I volti nel database, che fino a pochi istanti prima scorrevano uno dopo l’altro, erano stati sostituiti da una scritta lampeggiante.

Sul monitor di sinistra c’era ancora il viso del cadavere fotografato prima dell’autopsia. Una serie di linee e punti collegavano i suoi tratti somatici in uno strano reticolo verde luminescente.

Sul secondo monitor, adesso, c’era però una fotografia in bianco e nero molto sgranata. Era scattata da una strana prospettiva, forse con un teleobiettivo. L’uomo sembrava girato dalla parte opposta rispetto al fotografo e solo alcuni dei suoi lineamenti erano visibili. Sui tratti somatici disponibili, il computer aveva comunque tracciato un reticolo di linee verdi continue e tratteggiate.

Sotto la fotografia, il monitor riportava la scritta: “Probabile corrispondenza. Dati non univoci”.

 

Pochi secondi dopo, mentre saliva le scale diretto verso il parcheggio, Fossati selezionò un numero di telefono dalla rubrica del suo smartphone e inviò un SMS.

 

 

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