CAPITOLO 12

 

 

 

 

 

 

 

Roma, ore 11:30

 

Poco dopo la visita all’edificio della Scientifica, Lorenzo Fossati era affacciato alla finestra dell’ufficio, direttamente sul Tevere. Osservava le gocce di pioggia e rifletteva, immobile, con una sigaretta tra le dita.

A differenza dell’ispettore Lupatelli, che considerava la questione un problema, lui ne aveva capito l’esatta portata.

Se fosse risuscito a venirne a capo, quel caso poteva rivelarsi estremamente utile per la sua carriera e il suo successo professionale.

Non erano le sue uniche priorità, certo, ma aveva lavorato gran parte della sua vita per conservarle.

Ci teneva, come tanti e forse più degli altri: non aveva una vita privata e quindi viveva solo per il lavoro.

«Trovati una ragazza e metti su famiglia». La madre glielo ripeteva ogni volta che si parlavano al telefono. Forse era per quello che non lo chiamava più tanto spesso.

Non che negli anni passati non ci avesse provato, ma la vita a volte è strana. Era sempre stato additato come lo scapolo d’oro, piacente, benestante, un buon lavoro… eppure era ancora single. Suo malgrado.

Non sapeva spiegarselo. Ogni ragazza si rivelava sempre sbagliata. Così gli rimanevano il lavoro e la carriera. Dopo anni si era anche convinto che la sua strada fosse davvero quella.

Non si definiva certo un arrivista, ma sapeva che si vive una volta soltanto. Sapeva che il lavoro premia e ci teneva a farlo bene. In ogni caso non era un ingenuo: era convinto che per fare carriera, oltre al lavoro, servissero anche relazioni e conoscenze…

Era sempre stato un ragazzo tranquillo e dalla mente brillante. Quello che aveva ottenuto durante la vita lavorativa lo doveva esclusivamente alla sua intelligenza e alla sua sagacia.

Era una persona decisa, e la frase del suo mentore: «Non esistono obiettivi impossibili da raggiungere, esistono solo scarse motivazioni» era diventata la sua filosofia di vita. Aveva pochi vizi, fatta eccezione per il fumo, e pochi hobby: gli interessavano le motociclette e… la spiritualità.

Due passioni molto diverse, certo, ma che gli davano entrambe sensazioni piacevoli: libertà e serenità.

Aveva un carattere istintivo e si era lasciato spesso trasportare da semplici intuizioni. A volte un sogno, a volte un fatto che lo portava a riflettere, altre volte ancora una semplice coincidenza. Per lui, nulla succedeva per caso e da sempre cercava di “ascoltare” i segnali che il destino gli inviava.

All’età di diciassette anni aveva preso una decisione del tutto inaspettata: era entrato in seminario. Era stata una scelta repentina basata, come al solito, su una sensazione. Non fu mai in grado di spiegarsi quel gesto: era solo certo di non avere avuto una vera vocazione, infatti, dopo solo tre mesi, capì che i voti non erano la sua strada.

Il suo istinto, però, non aveva sbagliato. Quell’esperienza fu fondamentale per trovare se stesso. Durante il periodo in seminario conobbe frate Claudio, l’uomo che l’aveva aiutato a diventare la persona che era. Per certi aspetti, il religioso aveva fatto le veci di un padre putativo. Era stato lui a indirizzarlo sulla strada che ancora adesso, a distanza di oltre vent’anni, stava percorrendo.

«Devi credere in qualcosa, se non è la religione, credi nell’istinto, nel destino, nella vita, nel karma o in qualsiasi altra cosa».

Fossati lo aveva ascoltato e per adesso la sua vita era il suo lavoro… e la carriera.

E la questione “polonio”, se l’avesse gestita bene, avrebbe potuto aiutarlo a fare molta strada.

Il sostituto procuratore tirò l’ultima boccata, poi spense la sigaretta e rientrò nell’ufficio.

Capire prima degli altri come stavano realmente le cose poteva essere di fondamentale importanza.

Cercò di fare mente locale sugli elementi certi che aveva in mano: c’era un cadavere contaminato con un isotopo radioattivo molto raro e per di più quella non era la causa della morte. Cosa più rilevante, c’era anche una corrispondenza nel Weblase, il database di riconoscimento facciale.

Come era morto? Aveva preso qualche altro veleno?

Nessuno si suicida ingerendo due sostanze diverse, e di sicuro nessuno si inietta un veleno che impiega un mese a uccidere e provoca dolori lancinanti. Era difficile parlare di suicidio, e aggiungendo le altre informazioni raccolte, diventava praticamente impossibile.

Quel poveretto era stato ammazzato!

Si sedette alla scrivania, quasi sommersa di carte e di faldoni, e cominciò a sfogliare un fascicolo giallo con la scritta: “Alberto Zorzi – Riservato”.

Grazie a Baldacci, non era stato difficile farsi stampare il contenuto di quei file. La corrispondenza trovata dal software di riconoscimento facciale, assieme alla minaccia di non condividere gli esiti della sua indagine, era stata il lasciapassare.

«Risultati subito. Appena ha informazioni mi chiami!», gli aveva detto l’incaricato del generale quando, pochi istanti prima, con aria speranzosa gli aveva consegnato il fascicolo.

Certo, se avessero voluto, i servizi segreti avrebbero potuto togliergli l’indagine e avocarla a sé. Vista la strana questione del polonio, prima o poi l’avrebbero fatto, ma nel frattempo…

Quell’affare sembrava troppo grosso per lasciare il merito della sua soluzione ad altri. Nei palazzi romani funzionava così e ormai Fossati lo aveva capito alla perfezione. La cosa più intelligente era fare una ricostruzione attendibile dell’accaduto e poi andare a consegnare i risultati direttamente al vertice della piramide.

Baldacci non gli era mai piaciuto, però era l’uomo giusto. Nella testa del magistrato, la punta della piramide che avrebbe beneficiato della sua indagine era proprio Pulcinella. Per quella ragione lo aveva contattato via SMS. “A buon rendere!”, pensò con un ghigno.

Riesaminò il fascicolo. Il morto si chiamava David Green, israeliano. Il passaporto diceva che era nato a Haifa il primo agosto di quarantacinque anni prima. Viveva a Roma da due mesi con un visto turistico.

Sfogliò le altre carte e si fermò su un dispaccio che già alla prima lettura l’aveva lasciato perplesso: secondo i documenti acquisiti all’ambasciata israeliana non esisteva nessun David Green nato a Haifa in quella data.

Fossati si lasciò cadere sullo schienale della poltrona giocando con la sua Montblanc.

La conseguenza di tutte quelle informazioni era fin troppo ovvia: il passaporto era falso e il signor David Green non era mai esistito. Gli esami del DNA sarebbero arrivati nel giro di due giorni: da quelli, sempre che il polonio non li avesse resi inutilizzabili, sarebbe emerso qualcosa di più.

Prese in mano due fotografie.

In una si vedeva un cortile barocco inquadrato dall’alto, una serie di automobili ferme e un capannello di gente. Era la scena del crimine più importante degli ultimi anni: il Rathaus, il luogo in cui avevano ucciso Alberto Zorzi. La fotografia doveva essere stata scattata pochi istanti dopo lo sparo, forse da un elicottero.

La seconda immagine era quella che aveva già visto nel Weblase, ma ingrandita. La prospettiva non era ideale: l’uomo in primo piano era girato e solo una parte del viso era chiara. Il software aveva dato una percentuale di corrispondenza dell’ottanta percento: “Probabile corrispondenza. Dati non univoci”.

Fossati scosse la testa e si mordicchiò il labbro. C’era un cadavere avvelenato dal polonio, assassinato. Nome e passaporto erano falsi. Gli indizi che aveva in mano, per quanto scarni, lo collocavano inequivocabilmente sulla scena dell’assassinio del presidente Zorzi. Era coinvolto? E se lo era, in che modo?

Si alzò di scatto e afferrò il giubbotto da motociclista. La mossa successiva era praticamente obbligata.

 

Quaranta minuti più tardi, una porta di compensato fu forzata senza alcuna difficoltà.

Lorenzo Fossati era accompagnato da una squadra della polizia di Stato composta da sei agenti in uniforme, da tre della Scientifica e da un fotografo.

L’ultima residenza conosciuta di David Green era nel quartiere di Tor Bella Monaca.

L’appartamento era al secondo piano di una palazzina fatiscente che sembrava dovesse crollare da un giorno all’altro.

Gli agenti avevano attraversato la scala di cemento grezzo con le Beretta 98FS d’ordinanza spianate. Non avevano incontrato alcuna resistenza. Avevano bussato più volte ma nessuno aveva risposto. Poi erano entrati.

«Via libera!». La voce di uno dei poliziotti raggiunse Fossati.

Il PM varcò la soglia in silenzio, dietro a Lupatelli e ad altri due uomini della Scientifica.

Le pareti non erano intonacate e in alcuni punti si notavano rattoppi recenti in cemento che nascondevano cavi elettrici. Accanto alla porta c’era una stufa e il soffitto era annerito. Di fronte, la finestra aveva un vetro rotto e la serranda pendeva da un lato. Qualcosa però stonava con il resto: contro il muro era appoggiato un tavolo di tre metri su cui erano dislocati vari computer portatili di ultima generazione e monitor widescreen. Attaccato alla parete c’era un televisore al plasma e un armadio in vetro su cui erano sistemati cavi telefonici e apparati informatici. Sembrava una postazione di osservazione.

«C’è tanfo di chiuso!», sbuffò Lupatelli portandosi la mano al naso. «Qui non c’è nessuno da diversi giorni».

L’appartamento era composto da tre stanze, quella in cui erano entrati, la camera da letto e il bagno. Alcuni agenti armati si spostarono per perlustrarne il perimetro.

«Camera, libero!».

«Bagno, libero!».

Fossati fece un veloce giro di ricognizione: nell’altra camera c’era un letto sfatto; nel bagno non c’erano mobili, solo i sanitari e uno specchio incrinato. Quindi tornò nel soggiorno e si avvicinò alla postazione elettronica.

Sulla scrivania, un blocco di appunti con qualche scarabocchio, alcune fotografie in bianco e nero, un sacchetto di patatine aperto e un bicchiere sporco. Attaccati al muro facevano bella mostra di sé numerosi articoli di giornale.

Il PM li osservò meglio. Alcuni articoli erano scritti in cirillico, altri in inglese. Ve ne era anche uno in italiano: Londra, morta l’ex spia del KGB.

Fossati distolse lo sguardo e si concentrò sulle fotografie. Ritraevano sempre lo stesso uomo, riccio e sorridente. Non aveva idea di chi fosse. Mentre ne prendeva in mano una notò, sotto il tavolo, la presenza di una valigia.

«Qui c’è qualcosa!», esclamò, indicando l’oggetto agli agenti della Scientifica.

Un militare in borghese fu il primo ad avvicinarsi. «Sembra un borsone da viaggio!», osservò mentre lo tirava a sé. «Ha l’etichetta di un aeroporto. Riporta la scritta MUC-FCO»

«Monaco-Fiumicino», biascicò tra sé Fossati.

«È di giovedì scorso», concluse l’uomo.

Il giovedì precedente era stato il giorno dell’attentato ad Alberto Zorzi, ucciso proprio a Monaco di Baviera. Quel borsone confermava una volta per tutte la presenza di Green al Rathaus.

Fossati incrociò le braccia in attesa che gli artificieri lo aprissero.

L’operazione fu abbastanza veloce. Uno degli agenti infilò una microcamera a forma di cannuccia nel borsone per verificare che non ci fossero esplosivi. Visto dal piccolo monitor, l’interno della valigia sembrava vuoto.

«Apriamo!», decise l’artificiere, inginocchiato accanto al borsone con in mano il microvisore.

La cerniera fu fatta scorrere e, come era sembrato a una prima impressione, il borsone era completamente vuoto.

«Un momento!», grugnì l’agente, sorpreso. «E quella cos’è?».

Fossati si avvicinò: era una piccola chiave con un portachiavi d’acciaio. La girò tra le dita per osservarla meglio: c’era un’incisione ben leggibile.

Il PM sorrise, tutto troppo facile.

Pochi minuti dopo inviò un nuovo SMS a Baldacci.

 

 

 

 

 

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