CAPITOLO 56

 

 

 

 

 

 

 

Ore 07:55

 

Mentre Zion Eliyahu correva in direzione della strada principale, non riusciva a togliersi dalla mente le parole di suo padre: “La vita, prima o poi, ti presenta il conto”. Aveva cinquantacinque anni, un fisico corpulento e nessun particolare allenamento per il mezzofondo.

Il sentiero scendeva dolcemente verso la strada. Mentre metteva a fatica un piede davanti all’altro, tra gli aghi dei pini mediterranei, vedeva scorrere l’azzurro del golfo. Se avesse avuto la lucidità di guardare con attenzione, avrebbe visto anche la costa del Libano. Ma non era quello il momento per contemplare il paesaggio.

Nella sua esistenza riteneva di essere stato sempre molto fortunato e quindi, prima o poi, immaginava che gli sarebbe dovuto capitare qualcosa di brutto. Ma tutto in due giorni, e per giunta a causa di un fratello che non sentiva da cinque primavere, era davvero troppo. Gli aveva sempre voluto bene e poi, un giorno, si era sentito dire: «Non chiedermi dove vado. Ho un lavoro importante, adesso. Mi farò sentire presto».

E non aveva più avuto sue notizie. Tutto fino alla mattina precedente. Improvvisamente gli era arrivata una busta contenente dei fogli incomprensibili. Non lo sentiva da cinque anni e gli scriveva una lettera in una lingua straniera?

Finito il turno di lavoro, aveva guardato e riguardato quel messaggio, e poi si era ricordato di un conoscente che lavorava alla scuola europea di Tel Aviv. Forse capiva la lingua in cui era scritta la lettera e poteva aiutarlo a comprenderla. Aveva fatto appena in tempo a mandargli un fax e poi avevano bussato alla porta; erano due uomini in abito scuro e occhiali da sole: «Signor Eliyahu, ha avuto contatti recenti con suo fratello Yaniv?», gli avevano domandato a bruciapelo.

Lui aveva capito subito che tipo di gente aveva davanti: erano agenti del Mossad, il servizio di sicurezza. Ovviamente aveva risposto, seppur con un po’ di reticenza, a tutte le domande e aveva consegnato il contenuto della busta: dieci fogli scritti a mano.

E adesso, il giorno successivo alla visita del Mossad, si trovava qualcuno alle calcagna senza sapere neanche perché.

Zion Eliyahu raggiunse l’asfalto con i polmoni che gli bruciavano. Si voltò: i due erano dietro di lui, molto vicini. Troppo.

Aveva solo una possibilità.

Raccolse tutte le sue forze e attraversò la strada a strapiombo sul mare. In fondo c’era uno spiazzo e, forse, la salvezza.

 

Fossati, complici le ampie falcate e il suo allenamento, era a poca distanza da Eva.

Ironia della sorte, dopo giorni di inseguimenti in cui lui era la preda, adesso era il predatore.

Si augurò che Eva non facesse stupidaggini. La vedeva correre agile come una gazzella, con la Glock semiautomatica stretta nella mano sinistra.

Mentre correva si domandò cosa sarebbe accaduto se Eva avesse ucciso quell’uomo. Ne era capace? E soprattutto, lui sarebbe stato accusato di qualcosa?

Raggiunsero un grande parcheggio. Nella parte affacciata sulla baia si vedeva una struttura in acciaio e un’imponente cupola sopra un edificio di cemento armato: era la stazione d’arrivo della funivia.

Le tre cabine arancioni, di forma sferica, erano appese a un cavo e stavano scorrendo davanti a un pilone inclinato: procedevano verso il capolinea.

Se l’uomo fosse riuscito ad arrivarci prima di loro, probabilmente avrebbe potuto chiedere aiuto alle guardie armate che presidiavano l’entrata.

Fossati si convinse che non c’era pericolo, il grassone perdeva terreno a vista d’occhio ed Eva lo avrebbe raggiunto in pochi istanti.

Poi, l’uomo inciampò su qualcosa: si sollevò dall’asfalto con entrambi i piedi e prese il volo come un giocatore lanciato a canestro, con un’unica differenza: subito dopo si accartocciò sul cemento del piazzale.

Eva si avvicinò.

«Sta bene?», gli urlò. Contemporaneamente gli piantò la Glock nei reni e premette la canna. «Non fare scherzi», sussurrò, proprio mentre uno degli agenti di guardia si stava avvicinando.

«Tutto bene, tutto bene», mugugnò in ebraico Eliyahu all’uomo in uniforme. Sorrise, si scusò dicendo che aveva fretta e non voleva perdere la corsa della funivia.

«Bravo!», gli sussurrò Eva, che nel frattempo aveva nascosto l’arma nella cintura dei pantaloni. L’uomo si era seduto per terra. Aveva delle escoriazioni sul ginocchio destro e sul torace.

«Ho già dato la busta ai vostri amici!», bofonchiò Eliyahu in un inglese perfetto, non appena l’agente si fu allontanato.

«Cosa le fa credere che cerchiamo una busta?», replicò Fossati.

«Quando?», tagliò invece corto Eva.

«Ieri pomeriggio».

Il PM tese le braccia e lo aiutò a rialzarsi.

«Cosa conteneva la busta?», insistette Eva.

«Ma come, non lo sapete? Non vi parlate fra voi?».

Eva osservò Fossati e rimase in silenzio.

«Ci scusi, forse io e la mia collega abbiamo cominciato male questa conversazione!».

Io e la mia collega. Quella frase gli era proprio venuta naturale. «Veniamo dall’Italia», proseguì. «Stiamo seguendo l’indagine sulla morte di Yaniv Eliyahu. Lo conosceva?».

Se fino a un secondo prima l’uomo aveva cercato di individuare una possibile via di fuga o il modo per disarmare Eva, udite quelle parole rimase impassibile, come pietrificato. Due sole parole, “morte Yaniv”, avevano completamente cambiato le carte in tavola.

Quelle persone non erano del Mossad, non lo stavano inseguendo.

«Lo conosceva?», ripeté Eva.

Improvvisamente gli occhi diventarono lucidi. Il giorno precedente aveva domandato più volte agli agenti del Mossad notizie sul fratello. Quella gente, però, era abituata a fare domande, non a rispondere. Non lo vedeva e non lo sentiva da cinque anni e improvvisamente si rifaceva vivo con una busta. «Yaniv? È morto?», borbottò infine.

«Lo conosceva? Era un suo parente?», continuò Fossati.

Zion Eliyahu annuì. «Era mio fratello!».

«Cosa conteneva la busta?», insistette Eva, che non sembrava per nulla impressionata dal mutato atteggiamento del custode.

«Nulla. Fogli che non capivo. Se li sono presi loro».

Eva scosse la testa. Erano arrivati tardi.

«Cosa c’era scritto?»

«Non lo so. Erano caratteri latini. Ve l’ho detto, non li capivo».

«Posso domandarle perché è scappato quando ci ha visto?», chiese Fossati.

«Perché… perché mi avevano detto che… non dovevo… non dovevo parlare con nessuno dei documenti che hanno portato via!».

Un barlume di speranza si dipinse sul viso di Eva. «Con chi ne ha parlato?»

«Un amico… non volevo certo… volevo sapere cosa mi aveva scritto mio fratello. Li ho inviati a un amico che forse poteva tradurmeli!».

«Quando li ha mandati?»

«Ieri, poco prima che arrivasse il Mossad… Loro sono arrivati dopo… non sapevo che non potevo parlarne con nessuno. E poi, non si capiva nulla, erano dieci pagine piene di simboli!».

«Ne ha fatto delle copie? Come li ha spediti?». Eva lo strattonò.

«Non li ho spediti. Li ho inviati per fax. Da casa mia».

Finalmente una buona notizia.

«Alzati. Andiamo. Potrebbe essere il primo colpo di fortuna della giornata!».

 

A pochi metri da loro, all’ombra di una palma bassa e tozza, due uomini li osservavano da una vecchia Fiat Punto bianca.

Erano rimasti sul monte Carmelo per tutta la notte e uno dei due, il più giovane, teneva in mano una grossa macchina fotografica con un potente teleobiettivo Nikkor. Dall’arrivo dell’uomo e della donna aveva già scattato decine di fotografie. Li immortalò anche quando, assieme a uno zoppicante Eliyahu, si mossero a piedi in direzione della cupola del monastero, che brillava alla luce del mattino.Quando i tre imboccarono il viale lastricato che portava all’ingresso della cattedrale di Stella Maris, l’auto si mise in moto, fece manovra e si immise nella strada principale.

Il fotografo ripose la macchina fotografica, estrasse la scheda di memoria e scaricò le foto nel computer.

«Ti stiamo mandando le immagini dei due», fece al cellulare il più anziano, mentre l’auto si muoveva piano. «Appena avete riscontro fateci sapere».

Il collega chiuse il portatile e inforcò di nuovo gli occhiali. «Seguiamoli. Vediamo che intenzioni hanno».

 

 

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