CAPITOLO 49
Londra, 8 mesi prima
I pullman a due piani si alternavano davanti alle gigantesche insegne Sanyo e TDK di Piccadilly Circus.
Orde di turisti calpestavano in lungo e in largo il trafficato marciapiede, passando accanto all’uomo immobile sotto la scritta Coca-Cola, che campeggiava sulla facciata circolare dell’edificio tra Regent Street e Shaftesbury Avenue. Nessuno lo sfiorava. Quasi avessero saputo.
Yaniv Eliyahu si trovava a Londra su incarico dei servizi segreti israeliani. Doveva “sistemare” un russo di nome Dimitrij Rusakov. Non lo sapeva ancora, ma quel giorno sarebbe finita la sua seconda vita.
Appena fuori dalla metropolitana Yaniv si voltò, come se avesse avuto una premonizione.
Girò il capo e lo vide: un uomo con un abito verde e la faccia pallida.
Quel tizio non avrebbe dovuto trovarsi lì… ancora.
Si sfiorò il giubbotto, quasi per rassicurarsi, e toccò la provetta. Un lampo.
Rivide la faccia di quel tizio, un’ora prima, nel bagno dell’aeroporto di Heathrow.
«Fai attenzione, è una sostanza molto volatile», aveva detto in un locale che puzzava di ammoniaca. «Basterebbero poche gocce, ma l’ordine è di metterlo tutto… vogliamo che se ne accorgano!».
«Cos’è?», aveva chiesto lui.
«Polonio 210. È un isotopo radioattivo. Gli entrerà in circolo nel sangue. Sembrerà un delitto commissionato dai servizi segreti russi».
Ricordò le parole di Lior Ghadir: «L’ideale è che sembri una cosa fatta dai russi. Rusakov ha qualche problema con il suo Paese!».
Ma adesso era lui ad avere un problema. Quel tizio dalla faccia pallida era ancora lì. Come mai? Perché non era su un aereo diretto a Tel Aviv?
Lo seguì con gli occhi e vide che entrava nella toilette della metropolitana.
Yaniv alzò lo sguardo e individuò il sushi bar sulla piazza, era molto vicino. Poi si voltò ancora indietro e scese i gradini. Doveva saperne di più…
Dieci minuti dopo, raggiunse il locale e il russo al quale aveva detto di essere un giornalista che voleva intervistarlo.
Il ristorante era molto elegante e una musica rilassante era diffusa dai piccoli altoparlanti accanto all’ingresso. Sulla destra alcuni tavolini neri erano seminascosti da un séparé e da una fila di lampade di carta. Davanti a lui, il bancone del bar con una decina di sgabelli occupati. Su un nastro trasportatore si vedevano scorrere vari piatti colorati: sushi, sashimi, tempura e altre pietanze di cui non conosceva il nome.
Dimitrij Rusakov, il suo bersaglio, era già arrivato e lo stava aspettando.
Era un ex agente del KGB. Stando alle parole di Ghadir, tra il 1992 e il 1995 aveva lavorato a Tel Aviv per conto dei servizi segreti post sovietici. Cinque anni dopo era poi stato licenziato in tronco dall’allora presidente russo.
Qualcuno, nell’ambiente, aveva ipotizzato che l’ex spia avesse ricattato il Cremlino, minacciando di rivelare importanti segreti.
Probabilmente la vera ragione del licenziamento la conosceva solo Rusakov. In ogni caso, in seguito a quell’evento l’ex agente sovietico si era rifugiato con la famiglia a Londra chiedendo asilo politico.
Yaniv non conosceva il motivo della fuga di Rusakov e non gli interessava. Il poco che sapeva su di lui riguardava un libro intitolato Terra rubata, scritto dal russo, che accusava Israele di aver organizzato attentati contro la sua stessa gente. Sapeva anche che quell’uomo era un nemico di Israele e che la colpa del suo assassinio doveva ricadere su Mosca.
«Buongiorno», gli aveva detto ansimante, un tiepido sorriso dipinto sul viso. «Credo aspettasse me!».
«Prego!». L’ex spia gli aveva fatto cenno di accomodarsi.
«Passando dal bar mi sono preso la libertà di ordinarle un bicchiere di sake». Yaniv gli aveva porto il bicchierino avvelenato, cercando di mascherare il polsino della camicia sporco di sangue, e si era seduto.
La chiacchierata sul libro del russo si era conclusa regolarmente quindici minuti dopo e l’israeliano aveva salutato cordialmente Rusakov, che entro breve tempo si sarebbe ammalato per effetto dell’isotopo radioattivo.
Poco dopo essere uscito dal locale, Yaniv aveva avuto un breve ripensamento. Si era domandato se avesse fatto bene ad agire come aveva agito. Si era toccato la tasca e aveva messo la mano sulla provetta.
«Basterebbero poche gocce, ma l’ordine è di metterlo tutto… vogliamo che se ne accorgano…», gli aveva detto la faccia pallida.
Aveva fatto bene? Certo. Non aveva avuto scelta.
«L’ideale è farlo sembrare una cosa fatta dai russi». Le parole di Ghadir gli martellavano la tempia.
Tornò con la mente indietro di mezz’ora. Prima di sedersi al tavolo dello Yoshi aveva visto Faccia Pallida e lo aveva seguito nel bagno della metropolitana.
«Cosa ci fai qui?», aveva domandato puntandogli la pistola alla tempia. «Credevo fossi in volo per Israele! Non giochiamo per la stessa squadra?».
L’uomo non aveva fiatato.
Yaniv aveva insistito. «Non si fidano di me? Sei qui per essere sicuro che io faccia il lavoro?».
Strano, molto strano. Sarebbe stata la prima volta in dieci anni. La ragione doveva essere un’altra… purtroppo.
Aveva perquisito l’uomo tenendolo immobilizzato con la faccia al muro. Nella tasca dei suoi pantaloni aveva trovato ciò che temeva: un passaporto russo.
Lo aveva sfogliato con le dita tremanti. Accanto a un nome che non aveva mai sentito (ma che certamente sarebbe stato riconosciuto come spia russa) c’era una faccia conosciuta: la sua.
Eccolo, il modo.
Il polonio da solo non bastava. Serviva anche un killer russo trovato morto da qualche parte, meglio se fosse stato visto pranzare con Rusakov.
Il killer russo era lui… Faccia Pallida doveva essere lì proprio per quel motivo. Dopo l’intervista e l’avvelenamento di Rusakov lo avrebbe tolto di mezzo e gli avrebbe messo addosso il passaporto in cirillico.
Yaniv era stato preso dal panico. Era stato tradito dal suo Paese. In un secondo aveva deciso. Non aveva avuto scelta. La sua seconda vita sarebbe finita quel giorno.
Aveva premuto il grilletto e uno schizzo di sangue aveva imbrattato di rosso vermiglio le pareti intrise di umidità della toilette. Pezzi di cervello di Faccia Pallida si erano sparsi silenziosamente sul pavimento.
Yaniv si era guardato gli abiti. Incredibilmente si era sporcato solo il polsino della camicia. Si era ripulito come aveva potuto ed era andato a fare l’intervista. E a finire il lavoro per il suo Paese… Ghadir doveva sapere quello che gli avevano fatto!
«Basterebbero poche gocce, ma l’ordine è di metterlo tutto». Non aveva eseguito gli ordini. Non aveva messo tutto il polonio nella bevanda del russo. Si era limitato a poche gocce, tanto l’ex spia sarebbe morta ugualmente… il resto della provetta era la sua assicurazione sulla vita.