CAPITOLO 47

 

 

 

 

 

 

 

Altopiano del Renon, Bolzano,

ore 12:20

 

Era stata una mattinata veramente piacevole.

Per poche ore Lorenzo Fossati aveva liberato la mente e aveva fuso i suoi sensi con le bellezze della natura.

Le montagne erano silenziose, illuminate da una luce fioca che si rifletteva sulla sottile coltre di neve posatasi nella notte. L’aria era gelida e rarefatta e, nel respirare a pieni polmoni, il magistrato si era riconciliato con se stesso. Finalmente poteva prendere fiato, e non solo in senso metaforico.

Aveva viaggiato per tutta la notte ed era tornato in uno dei pochi posti che durante la sua vita erano stati veramente significativi.

Il convento di Renon, costruito attorno all’anno mille, era un complesso in pietra dal tetto spiovente che dominava un immenso altopiano. Era affacciato su una terrazza naturale che dava sui massicci delle Odle, del Rosengarten Latemar, del Sassolungo e dello Sciliar ed era circondato da una vegetazione rigogliosa di larici, pini e betulle. Come gli antichi masi appartenuti ai cavalieri teutonici, anche il convento era costruito lungo la strada dell’imperatore.

Se non fosse arrivato lì per sfuggire a un nemico invisibile e inafferrabile, Fossati avrebbe anche potuto considerarsi in un ritiro spirituale o, meglio ancora, in vacanza.

«Comunque sono contento che tu sia venuto», bisbigliò padre Claudio. Davanti al suo viso si formò una nuvoletta di condensa.

Avevano camminato a lungo, fino alla minuscola stazione di Collalbo: da lì passava un trenino fiabesco in legno che, tra boschi innevati e montagne scoscese, conduce fino a Bolzano.

Durante la passeggiata in mezzo alla neve fresca, Fossati gli aveva raccontato ogni cosa: Green, il polonio, la connessione con l’attentato a Zorzi, per arrivare alle morti di Valerio Pina, Cécile Cissé e Paolo Lupatelli. Gli aveva anche raccontato di sentirsi solo, abbandonato da tutti, e di avere paura, senza sapere di cosa.

Padre Claudio aveva arrancato con i suoi sandali sul sentiero, aveva storto il naso ed era rimasto a lungo in silenzio. Dalle sue labbra non erano uscite massime risolutrici o consigli che in un secondo potevano risolvere i suoi problemi. Solo tiepidi sorrisi.

«Puoi restare qui quanto vuoi», si era limitato a dire il religioso più volte.

Fossati lo aveva osservato: era molto invecchiato, era più pallido, più gobbo e più stanco. Però, negli occhi piccoli e neri segnati da profonde rughe, riusciva ancora a vedere quella strana luce che aveva saputo indirizzarlo e consigliarlo nei momenti più importanti della vita. Aveva fatto bene a tornare lì.

«La ringrazio padre. Non sapevo proprio dove andare!», sospirò Lorenzo, mentre attraversavano il cancello aperto del convento. Contemporaneamente suonò il cellulare. Fossati lo osservò di nuovo. Era le terza volta che provavano a chiamarlo da Roma. Non aveva mai risposto. L’unica cosa che si era limitato a fare, per cercare di restare attaccato alla sua vita normale, di uomo di legge e di persona che segue le regole a ogni costo, era inviare una semplice email.

Era stato prima di affrontare il lungo viaggio. Appena l’inseguimento immaginario, che l’aveva spinto a prendere la decisione di scappare, si era concluso, aveva mandato un’email dal cellulare: “Egregio procuratore Gambino”, aveva scritto. “Ho un problema in famiglia, ho bisogno di qualche giorno di ferie. Ho provato a contattarla per telefono ma non sono riuscito a parlarle. Conto di rientrare la settimana prossima”.

Stava scappando, eppure non era capace di fare le cose al di fuori dalle procedure. Nell’intimo era convinto che finita quella storia sarebbe ritornato al suo lavoro, alle sue pratiche e ai suoi processi. E quello era il motivo per il quale il cellulare era ancora acceso.

«Non rispondi?», l’apostrofò padre Claudio.

«Non ora». Fossati rifiutò la chiamata e rimise il telefono nel giubbotto.

«Riposati adesso. Dopo una bella dormita vedrai che ti sarà tutto più chiaro. Vedrai che la divina provvidenza ti indicherà la via».

“Eccolo, il suo consiglio”.

Fossati sorrise ma si sentì deluso. Aveva sperato, in cuor suo, che padre Claudio sapesse risolvere anche quella situazione.

I due uomini entrarono in silenzio. Il religioso si diresse verso la cappella con il capo chino mentre Fossati proseguì verso le celle.

Ce n’erano diciotto, quasi tutte vuote. Padre Claudio ne occupava una dalla parte opposta del corridoio e adesso lui avrebbe dormito in un’altra. Prima di uscire a camminare aveva lasciato lì qualche effetto personale e si era sciacquato il viso. Aveva scelto quella perché era stata la sua cella. Si ricordava l’odore di umido dei muri, che spesso si mescolava con il profumo che veniva dalle cucine sottostanti. Ricordava anche la vista dalla finestrella sulla vallata, la splendida statua bianca della madonna e una piccola fontana ghiacciata. Tutto era rimasto uguale, gli sembrava solo più piccolo di come lo ricordasse.

Imboccò una scala stretta e lunga. In alto, un lucernario chiuso da una grata in ferro illuminava debolmente i pochi dipinti appesi alle pareti.

Le porte affacciate sul pianerottolo erano tutte uguali, fatte di travi grezze di legno, pesanti cerniere cigolanti e nessuna serratura. Entrò nella cella con la mente stranamente libera e serena e si chiuse la porta alle spalle.

Appena si voltò, l’immagine che gli si parò davanti lo immobilizzò dalla paura: la camera non era vuota…

Tutti i pensieri, che si erano sopiti durante quella mattina, tornarono prepotentemente a galla: davanti a lui c’era una donna con le gambe accavallate e una piccola pistola nera in mano.

«Siediti!», gli ordinò in inglese.

 

 

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