CAPITOLO 37
Copenaghen, Danimarca,
ore 22:55
A Eva era sempre piaciuto il caminetto scoppiettante. Le ricordava le sere in cui, con la famiglia riunita, si sedevano accanto al focolare e si raccontavano storie. Non importava che tipo di storie, l’importante era stare insieme e sentire quella sensazione di calore tipica della sua casa. Le ricordava le feste. Le ricordava il Natale.
Il caminetto, di solito, la rendeva allegra. Non quella sera però.
Eva era sprofondata sul divano con lo sguardo fisso sul muro, la stanza illuminata solo dalla luce del fuoco e dello schermo del computer acceso.
Nella postazione A26 del palazzo di Giustizia di Roma – in un computer poco protetto di un ufficio deserto – c’era molto, troppo su di lei. La cosa la inquietava.
Nei suoi otto anni di carriera non le risultava che le autorità avessero collegato tutti i suoi “lavori” a un solo esecutore. Non sapeva ci fosse un’indagine sul Cigno Grigio.
Ripensò a quanto aveva potuto osservare nel computer: fotografie di Alberto Zorzi dall’elicottero, un ingrandimento di Yaniv Eliyahu nel cortile d’onore del Rathaus, uno strano tatuaggio, il cadavere di Yaniv sottoposto ad autopsia.
C’erano poi alcuni documenti scritti in italiano e alcune email: in una di queste era comparso il suo nome.
Non riusciva ancora a collegare tutti gli elementi, soprattutto non comprendeva come da Roma fossero potuti risalire al sito Internet.
Naturalmente gli inquirenti avevano collegato il presunto suicidio di Yaniv alla morte di Zorzi. Se c’era la foto dell’israeliano sul luogo dell’attentato, dovevano avere già trovato tutti gli elementi. Probabilmente avevano già in mano il fucile.
Tutto era andato come da programma… tranne il fatto che in qualche modo erano arrivati a lei.
Una cosa era certa: si trovava stretta in una morsa. Da una parte l’Organizzazione, che aveva già tentato di farla fuori e che sicuramente ci avrebbe riprovato. Dall’altra un’indagine che, prima o poi, l’avrebbe costretta a nascondersi.
Ripensò all’agendina rossa che avrebbe dovuto consegnare agli amici di Günther. Forse era quella la causa di tutto. Anche in quell’occasione aveva sbagliato. Avrebbe dovuto accettare solo il lavoro principale e far fare il resto all’israeliano.
Eva si alzò in piedi. Dal canale soffiava il vento gelido del baltico che provocava uno strano ululato infilandosi sinuoso tra i palazzi della città.
Camminò nervosamente per la mansarda tirandosi i capelli indietro con le mani. Faceva due passi e poi con le dita lunghe e affusolate formava e disfaceva la coda di cavallo dalla quale sbucava la ciocca grigia.
Proseguì diversi minuti in silenzio, poi un rumore la distolse dai suoi pensieri.
Rivolse lo sguardo al computer: era uscito dall’inattività.
Un nuovo contatto sul sito.
Eva si avvicinò al portatile e digitò una sequenza sui tasti, seguita da diversi comandi di codice, e rimase folgorata.
Roma. Ancora.
Questa volta però non era un computer. Era un dispositivo mobile, probabilmente uno smartphone di ultima generazione.
Meglio così.
Gli smartphone sono i dispositivi più vulnerabili che esistono sul mercato. Gli utilizzatori difficilmente si preoccupano di proteggerli con antivirus o firewall. Il trojan si installò senza apparente difficoltà.
Eva digitò ancora sulla tastiera e in pochi secondi fu padrona del terminale.
Se l’accesso precedente poteva darle l’illusione che si trattasse di una coincidenza, questo ulteriore tentativo di accedere a Greyswan.eu fugò ogni tiepido dubbio.
Doveva saperne di più.
Era possibile che quegli accessi web fossero collegati soltanto alla morte di Yaniv? Era possibile che gli inquirenti si fermassero al finto suicidio dell’israeliano senza arrivare in qualche modo a lei?
Possibile, certo. Ma fortemente improbabile.
“Obiettivo sacrificabile”. Pur essendo tale, l’israeliano aveva trovato il modo di farli arrivare al sito.
No, la colpa non era di Yaniv. Era sua, che si era fidata e aveva accettato quel lavoro.
La vicenda di Londra, del polonio e di tutto ciò che aveva appreso prima che l’uomo la contattasse era un esempio lampante di come agiva Yaniv.
Un rumore appena percettibile la distolse dai suoi pensieri. Poi un altro e un altro ancora.
Veniva dalla strada, era come se… qualcuno avesse chiuso lo sportello di un’auto.
Eva si affacciò alla finestra. Sotto di lei si vedeva uno scorcio del canale con una corvetta ormeggiata coperta da un telone grigio. Poco oltre c’era la parte finale del molo pedonale. Non si vedeva anima viva… fatta eccezione per un grosso SUV nero che aveva appena parcheggiato.
Quattro uomini erano scesi con una certa fretta. Pochi secondi dopo, una seconda auto si fermò dietro il primo SUV. Anche da quella scesero, quasi contemporaneamente, quattro persone.
Nella penombra non le sembrarono armati, finché non udì un botto, sordo, sotto di lei: uno sparo.
Erano armati eccome! E cercavano lei.
Eva deglutì. Chiuse il portatile ed estrasse una piccola Glock 29 dal cassetto della scrivania.
Aprì la finestra e uscì sul cornicione.