CAPITOLO 14
Monaco di Baviera, Germania,
ore 12:50
Mentre a Roma veniva fatta un po’ di chiarezza sul disegno tatuato sul cadavere del Tevere, a Monaco era giunta una segnalazione interessante: nella valigia di David Green, il sostituto procuratore Fossati aveva trovato una piccola chiave con una medaglietta d’acciaio. Incisa nella parte superiore c’era una scritta che non lasciava più nessun dubbio: “Biblioteca municipale di Monaco”. Accanto al logo c’era poi il numero duecentoundici.
La task force che si occupava delle indagini sull’attentato ad Alberto Zorzi aveva ricevuto la notizia direttamente dal magistrato italiano ed era pronta a intervenire.
La biblioteca municipale era dislocata nell’ala sud-est del Rathaus e arrivava a occupare anche alcune stanze affacciate su Marienplatz. Da uno dei locali affacciati sul cortile interno avevano sparato ad Alberto Zorzi. All’ingresso dell’edificio era collocata una fila di armadietti in acciaio, simili a quelli delle stazioni ferroviarie, che servivano agli ospiti della biblioteca per depositare borse ed effetti personali.
«Apriamo!», ordinò la figura imponente di Rudolf Ottl.
Accanto alla porta, numerosi agenti attendevano immobili in tenuta anti-sommossa. Vicino all’armadietto numero duecentoundici c’erano anche due artificieri del BKA.
Thomas La Forte, il capo della PES, era due passi dietro con le braccia incrociate.
«Durante una nostra indagine ci siamo imbattuti in alcuni indizi che potrebbero essere collegati alla morte di Zorzi», gli aveva detto Fossati al telefono.
Non si erano mai parlati prima di allora. Da quello che aveva potuto capire, i suoi recapiti gli erano stati forniti direttamente da Baldacci.
Il magistrato lo aveva aggiornato con gli elementi che aveva scoperto indagando sul suo caso: cadavere, tatuaggio, polonio, fotografia dall’elicottero, viaggio Monaco-Roma. In qualche modo, la figura di David Green era legata all’attentato al presidente del Consiglio dei ministri, anche se non sapeva esattamente in quale maniera.
«Forse la chiave che abbiamo trovato ci potrà dare qualche risposta», aveva concluso il PM.
Uno degli agenti infilò una spranga di ferro ricurva sotto la serratura dell’armadietto e forzò.
«Ancora!», lo incitò Ottl. Era un omone di cento chili, con due baffetti neri e gli occhi piccoli. Nonostante tutto, si rendeva conto della situazione e cercava di porvi rimedio come meglio poteva.
Avevano sparato al presidente del Consiglio italiano da quel palazzo, da quegli stessi locali polverosi e carichi di libri antichi. E nessuno si era accorto di nulla.
Le lacune della sicurezza erano sotto gli occhi di tutti. Lampanti. Vergognose. Ma purtroppo era tardi.
L’unica cosa che si poteva fare era acciuffare il colpevole il prima possibile. E ci stava provando.
«Di sicuro, se hanno sparato da qui, devono per forza essere entrati e usciti dalla porta principale», gli aveva detto La Forte poco prima, osservando un foro nella finestra. «Se qualcuno fosse uscito con un fucile l’avreste individuato subito».
«Questo significa solo una cosa», aveva ribadito lui. «L’arma non è uscita con l’assassino».
L’armadietto si spalancò in quel momento.
I presenti rimasero sbalorditi. Qualcuno l’aveva perfino sperato, ma nessuno ci aveva creduto per davvero.
Tutto si sarebbero aspettati, tranne trovare quello che invece c’era: l’arma del delitto, un fucile di precisione Sako TRG-22 completo di ottica Schmidt & Bender.