CAPITOLO 59
Roma, ore 12:00
Carlo Maria Rosati aveva il viso stravolto. Salutò il portiere del palazzo con un cenno del capo e si infilò nell’ascensore. Inserì la chiave in corrispondenza del tasto per l’ultimo piano e lo premette. Un sibilo appena percettibile accompagnò la salita.
Quando le porte si aprirono, direttamente nel soggiorno vista Colosseo, il ministro si slacciò cravatta e camicia e appoggiò le chiavi e il cellulare sul tavolo di cristallo.
Non notò il pacchetto sistemato sulla credenza e si lasciò cadere sul divano.
Rosati appoggiò le gambe su un tavolino sul quale erano ammucchiate ordinatamente alcune riviste. Chiuse gli occhi e cercò di praticare, nel miglior modo possibile, la respirazione yoga per scaricare lo stress.
Pensa a un triangolo… inspira sul primo lato… espira sul secondo lato… espira sul terzo lato… ricomincia…
Mentre era intento nella respirazione, con la mano accarezzava un vaso Ming del xv secolo, quasi a rassicurarsi che fosse ancora lì. Era il suo unico tocco all’arredamento dell’attico. Gli era costato come una fuoriserie, ma nelle feste – a dispetto dell’arredatore, che lo aveva giudicato poco coerente con gli altri mobili – di solito riscuoteva un discreto successo. Quasi tutte le mogli dei suoi colleghi, un paio di ministri, qualche senatore, perfino un cardinale, quando lo avevano notato la prima volta si erano trasformati come d’incanto in super esperti d’arte medievale cinese.
Inspira… espira… espira… inspira… espira… espira…
Erano stati giorni stressanti per lui. La morte di Zorzi, i preparativi per il funerale, la cerimonia, il cadavere nel Tevere, il polonio, la conferenza stampa, Pulvirenti, Baldacci e tutta la sua cricca di incompetenti. Ci mancava solo un viaggio di sei ore in macchina: era partito il pomeriggio precedente, aveva assistito all’iniziazione di secondo grado nella loggia e aveva guidato sei ore durante la notte per tornare a Roma.
L’orologio sulla parete indicava mezzogiorno meno un quarto. Dalla terrazza entrava un’aria fredda ma almeno, rispetto ai giorni precedenti, fuori non pioveva.
Inspira… espira… espira…
Poi uno squillo, che cancellò in un secondo la poca concentrazione che era riuscito a conquistare.
Si alzò di scatto. «Pronto?»
«C’è un problema», esordì una voce.
“Sai che novità!”. In quelle giornate non avevano fatto altro che sottoporgli problemi. E nessuno che avesse proposto mai una soluzione. Altro che yoga!
«Al talk show di domani sera! Purtroppo il ragazzino è confermato tra gli ospiti».
«Hai parlato con il direttore di rete?»
«Si sbatte la Manzoni. C’è poco da fare, temo. Mi ha detto che non ha nessuna intenzione di modificare gli ospiti con così poco preavviso! Ha parlato di palinsesti… contratti con gli sponsor… puttanate del genere».
«Quella troia! Ma chi si crede di essere? Pensa di usare la televisione pubblica per fare i suoi interessi?», mormorò Rosati digrignando i denti. «Devo alzare il telefono io? Devo chiamare il direttore generale? Devo prendere decisioni più drastiche?».
In quel momento l’occhio gli cadde sul pacchetto che non aveva notato prima. Era appoggiato in bella mostra sulla credenza smaltata: un plico marrone con un disco di ceralacca sulla chiusura. Sopra c’era un post-it: “E arivato questo pacco. o firmato io”.
La grafia tremolante e soprattutto gli errori ortografici erano inconfondibili, opera di Renata, che in realtà aveva un nome russo impronunciabile. Era lui che la chiamava così perché non riusciva a imparare il suo vero nome. Lei non sembrava dispiacersene e di sicuro non si era mai lamentata.
«Va bene. Grazie. Ci penso io!». Rosati concluse la conversazione telefonica molto più velocemente e gentilmente di come avrebbe meritato l’interlocutore. Lanciò il cellulare sul divano e portò il pacchetto al tavolo di cristallo.
Lo osservò meglio: il simbolo era fin troppo noto.
Ruppe il sigillo ed estrasse un fascicoletto blu con fogli dattiloscritti. Il titolo non gli diceva granché, ma tutto sommato era rassicurante: “Proposta di modifica della direttiva 11.110 sullo sviluppo economico. Per la presidenza di turno dell’Unione Europea, Carlo Maria Rosati, PCM”.
PCM significava “presidente del Consiglio dei Ministri”. Una “visione”, una profezia sul futuro che non gli dispiaceva affatto.
La sfogliò velocemente. Articoli, postille, commi ed elenchi scritti in gergo legale.
Tra l’altro, senza sapere cosa fosse la direttiva 11.110 che si pretendeva di modificare, leggere tutto il testo non gli sarebbe servito a granché.
Si alzò e mentre rovistava ancora nella busta si diresse verso lo studio. Prima di sedersi di fronte al computer, estrasse un secondo foglio. Era una lettera indirizzata al segretariato generale del Consiglio dell’Unione Europea, Palazzo Justus Lipsius, Rue de la Loi, Bruxelles.
Lesse il testo della lettera: “Trasmetto la proposta di modifica della direttiva ecc. ecc. Si auspica venga inserita all’ordine del giorno ecc. ecc. Si raccomanda l’urgenza…”.
Il nome del firmatario era già prestampato: “C.M. Rosati”, ma parte della data era in bianco, c’era solo l’anno. Chi aveva compilato quei documenti aveva scommesso sul fatto che lui sarebbe diventato presidente di turno dell’UE, e quindi aveva avuto l’accortezza di non inserire giorno e mese.
Il ministro sorrise. Insieme alla lettera c’era un foglietto scritto a mano: “Ministro, la prego di firmare la lettera e riconsegnarla al fattorino che sarà da lei alle due in punto. Hans”.
Era dell’uomo che aveva incontrato due giorni prima al centro massaggi.
La prego di firmare!
Se fosse riuscito a sconfiggere Luca Zorzi alle primarie e fosse diventato quello che Hans si augurava, il tedesco avrebbe già avuto in mano una proposta di legge che, evidentemente, gli stava molto a cuore.
C’era solo un problema: Hans pretendeva che firmasse una proposta di legge che neppure conosceva. Rosati mosse il mouse e cercò su un motore di ricerca: “Direttiva 11.110”.
Sullo schermo apparvero numerosi risultati. Siti istituzionali, siti di informazione economica e alcuni siti Internet che vedevano in ogni atto una cospirazione.
Cominciò a leggere. Rimase inchiodato allo schermo del computer, senza riuscire a distogliere lo sguardo, per quasi un’ora. Non aveva idea stesse in quel modo… certo, mancava ancora il decreto attuativo… però… non aveva scelta.
In quel preciso momento, molte delle frasi pronunciate da Hans due giorni prima cominciarono a riprendere forma nella sua mente: “Non ringraziarmi Carlo Maria, siamo qui per affari!”, “Noi abbiamo deciso di darti fiducia” e “Questa giostra sta in piedi grazie a noi”.
Quella, per lui, era un’occasione. Se avesse firmato avrebbe avuto una strada in discesa. Dopotutto, tutti avevano un prezzo e quello che si chiedeva a lui non era poi troppo caro. Almeno non per lui. Non erano problemi suoi.
Scosse la testa, avvicinò la penna al foglio e vergò la sua firma.
Più o meno nello stesso istante, un fattorino stava bussando a una porta smaltata di bianco con una maniglia color oro.
Era di fronte all’ingresso di una delle trentadue suite dell’Hotel Excelsior, lo stesso in cui alloggiavano i due gemelli che avevano preparato i plichi da consegnare.
Il ragazzo attese qualche istante e poi un uomo in boxer gli aprì.
«Ho una busta per lei!». Teneva le mani tese e aveva un viso sorridente.
L’uomo afferrò il plico e osservò il simbolo impresso sul sigillo di ceralacca.
«Devo firmare, immagino?», sospirò appena.
Il ragazzo gli porse un tablet con una penna capacitiva e gli indicò il punto esatto.
Mentre l’ospite della stanza firmava, il fattorino lo osservò meglio. Era scalzo e con indosso solo dei boxer a righe. La cosa che più attirò la sua attenzione fu però un’altra: una grossa cicatrice che attraversava il torace. Sembrava che qualcuno lo avesse squartato e poi ricucito.
«Grazie!», sussurrò, appena gli fu riconsegnato il dispositivo.