CAPITOLO 75
Bellagio, Como,
un mese prima
Alberto Zorzi era affacciato alla finestra della splendida villa sul lago di Como.
Il pallido sole stava per tramontare dietro le Alpi e la superficie increspata dell’acqua aveva un colore blu scuro.
Da dietro la tenda si intravedeva un certo movimento di barche sulla riva opposta, dalla parte del santuario di San Martino, esattamente da dove era arrivato, pochi minuti prima, il piccolo motoscafo con a bordo Jean François Defour.
Data la segretezza della riunione, sul molo, unico accesso alla villa, erano ferme cinque guardie del corpo, intirizzite. Se si escludevano le due donne di servizio, tra quelle mura erano completamente da soli.
Alberto Zorzi spense la sigaretta, prese il lucido e lo osservò con attenzione.
Il bozzetto era grande come un foglio A4, trasparente sui bordi e con il disegno a grandezza naturale al centro. Raffigurava una banconota da cinquecento euro. Era di colore viola, con un reticolo nella parte destra e le dodici stelle della bandiera europea nella parte centrale. C’era però una piccola differenza, rispetto alle banconote che aveva sempre tenuto tra le mani: sul lato sinistro, in alto, invece di “BCE” compariva la sigla “UE”.
«Eccola finalmente!», esclamò Alberto Zorzi, la voce rotta dall’emozione.
Defour era dietro di lui, seduto su una poltrona in stile veneziano. Sulle gambe ossute e accavallate teneva appoggiata una valigetta di pelle nera. «Ho qui gli altri bozzetti», ridacchiò, con una punta d’orgoglio.
Il presidente del Consiglio si voltò verso di lui e allungò la mano.
Li guardò tutti: da duecento, da cento, da cinquanta, da venti, da dieci e da cinque. Quelle banconote erano identiche a quelle che erano entrate in vigore nel 2002, se non per una piccola grande differenza: non erano state stampate dalla Banca Centrale Europea di Francoforte, ma dal nuovo Dipartimento del Tesoro europeo, creato proprio dal presidente.
«Bene!», sentenziò Alberto Zorzi. «Molto bene».
Defour sorrise e frugò nella valigetta.
«Ha seguito le mie istruzioni?», domandò il presidente senza togliere gli occhi dai bozzetti.
«Certo», rispose garrulo Defour. «Nessuno sa nulla dei disegni se si eccettuano i grafici e gli esperti che abbiamo interpellato. Nessuno comunque credo che abbia capito a cosa stavano lavorando. Fortunatamente il nostro sistema economico è misterioso per il novantanove percento degli europei».
«Fortunatamente…», borbottò Zorzi. «Non direi, fortunatamente. Non saremmo a questo punto se la gente sapesse come stanno realmente le cose. Se sapessero che la scritta BCE è il sigillo della loro schiavitù».
Il belga annuì con un’espressione scura in viso.
«L’importante è che i “proprietari” del sigillo non sappiano nulla fino a quando non sarà ora». Zorzi si spostò dalla finestra e giocherellò con la sigaretta che aveva spento nel posacenere. «E devo essere io a chiarire come andrà la transizione. Devo parlare con il burattinaio».
«Ho fatto la ricerca che mi ha chiesto». Defour socchiuse le labbra in un accenno di sorriso.
Zorzi prese la sua agenda rossa, dalla quale non si separava mai, e aprì una delle pagine iniziali.
«Si chiama Armin Schollen. Per la verità ha cambiato nome. Apparteneva a un’antica famiglia tedesca».
«Armin Schollen…», gli fece eco Zorzi, che individuò il nominativo con la sua Montblanc. «Può farci arrivare al burattinaio?»
«Potrebbe…», ipotizzò Defour. «Fa parte di una delle tredici famiglie. È forse l’unico volto conosciuto. Adesso sembra sia andato un po’ fuori di testa… se mi passa il termine! Se ne va in giro facendo conferenze sul sistema del signoraggio».
«Armin Schollen». Zorzi vergò tre punti interrogativi accanto a quel nome e poi guardò Defour. «Speriamo di poterlo incontrare presto».
Il giovane funzionario non disse nulla. Attese ancora qualche istante e poi estrasse altri fogli dalla valigetta. «Queste sono le riserve principali aggiornate a dicembre scorso. Non è un elenco completo».
«Vediamo». Zorzi si sistemò gli occhiali e cominciò a leggere ad alta voce la prima colonna: «Germania 3.743, Italia 2.702, Francia 2.684, Paesi Bassi 675».
«Complessivamente, 9.804 tonnellate», spiegò Defour. Poi indicò un’altra tabella, posizionata sotto la prima. «Qui, invece, ci sono gli altri preziosi».
Zorzi fece scorrere lo sguardo. Si trattava di cifre considerevolmente inferiori alle prime, sia come peso che come valore. Tornò alla prima tabella e sospirò visibilmente deluso. «Questi sono i totali generali, oro e altri preziosi?»
«Esattamente. Anche se non abbiamo tutti i dati dei ventisette, ci assestiamo quasi su trecentocinquantasette miliardi di euro. Sono calcolati sull’attuale prezzo di mercato», spiegò. «I lingotti sono depositati nei caveau delle banche centrali che hanno il compito di gestirli. In ogni caso si tratta di riserve statali a tutti gli effetti. A mio parere non sarà necessario neppure spostare i preziosi materialmente…».
«Trecentocinquantasette miliardi? Solo questo?», lo interruppe Zorzi amaro. «Si tratta di poco più dell’importo di un’asta di titoli di Stato! Stiamo parlando di riserve auree e argentee? Di tutto quanto?».
Defour annuì. «Anche io pensavo che i governi avessero messo da parte più oro… ma qualcuno evidentemente se ne è già accaparrato una parte considerevole. Solo la BCE ne ha cinquecento tonnellate che non potremo utilizzare».
Zorzi rimase in silenzio per qualche secondo. Sperava che il progetto poggiasse su basi più solide, ma d’altra parte era meglio di nulla. Informalmente aveva già parlato con la presidente francese, con il presidente tedesco e con il primo ministro belga. Il mese successivo avrebbe incontrato i primi due di persona ma, nel frattempo, aveva avuto da loro il mandato di “provarci”. Tutti erano stanchi del sistema e tutti, chi più chi meno, non vedevano l’ora di cambiarlo.
Zorzi era stato l’unico ad avere il coraggio e soprattutto ad aver trovato il modo per farlo. Se ci fosse riuscito, le finanze degli Stati europei sarebbero finalmente tornate in ordine, sarebbero finite le crisi economiche pilotate e le speculazioni. Il mondo sarebbe stato un mondo nuovo.
«Va bene!», sentenziò infine. «Cominciamo con trecentocinquantasette miliardi di euro. Quando il sistema sarà partito anche gli altri ci seguiranno». Porse il foglio al belga e tornò a sedersi accanto a lui.
Entrambi sapevano che i passi che stavano compiendo erano molto pericolosi. C’erano giganteschi interessi economici in gioco e gente che avrebbe ucciso per molto meno.
«Adesso parliamo della parte normativa. Dobbiamo essere supportati nel modo migliore dalla legge. Ha sistemato l’articolo uno?».
Il funzionario di Bruxelles fece cenno di sì, ricordandosi delle prime parole di Alberto Zorzi, quando gli aveva illustrato il suo progetto: «Se la legge non c’è… facciamola!».
Defour estrasse un testo dattiloscritto: «Sì, è stato modificato come mi aveva richiesto». Poi passò il foglio a Zorzi, che cominciò a leggerlo con attenzione.
In virtù dell’autorità affidata a questo parlamento, la Sezione 1 dell’Ordine Esecutivo n. 11.110, già modificata con decreto attuativo, viene qui ulteriormente modificata con l’aggiunta del seguente sottoparagrafo:
2. Il potere di cui è investito il Dipartimento Comunitario del Tesoro di costituenda formazione lo autorizza a emettere per conto del Governo Centrale dell’Unione Europea certificati auriferi e argentiferi contro qualsiasi deposito d’oro e d’argento disponibile nelle casse nazionali…
Zorzi sorrise e guardò malinconicamente fuori dalla finestra. Il sole era tramontato. «Bene. Speriamo che cancellare il loro sigillo non ci costi la testa».