CAPITOLO 29
Ore 18:40
La bicicletta in titanio schizzò veloce dall’incrocio di via Giulia e si diresse verso l’ambasciata di Spagna sul Lungotevere.
I polpacci di Paolo Lupatelli ricominciarono a pompare potenti sui pedali, come i pistoni di un motore diesel, e le due ruote slittarono sull’acqua di una pozzanghera.
Dalla parte opposta del fiume, in fondo alla strada ancora scivolosa per la pioggia, si intravedeva la sagoma inconfondibile del cupolone di San Pietro. Guardando più in alto e verso est si scorgeva un fascio di luce bianca che baluginava nel buio: una sorta di colonna immobile che si innalzava da palazzo Chigi verso il cielo, in segno di lutto.
L’umore dell’ispettore capo della Scientifica era ancora nero, ma la bicicletta lo rilassava. Era sempre stato così. Fin da giovanissimo, prima che la sua strada lavorativa fosse segnata dalle conoscenze del padre, si era persino immaginato ciclista professionista. Aveva partecipato a gare amatoriali e ne aveva anche vinte alcune. Ma il mondo del ciclismo era più complicato di quanto avesse immaginato. I romantici pensieri e le aspettative di un adolescente si erano scontrati con circostanze con le quali lui non voleva avere nulla a che fare.
«Se vuoi diventare professionista, prova a farti dare un piccolo aiuto!». Doping. Quante volte aveva sentito quelle parole.
Aveva sempre rifiutato.
Il suo fisico, la sua costanza, il suo allenamento e la sua dieta ferrea si erano scontrati innumerevoli volte con la fame di vittoria di chi non sapeva rifiutare “l’aiuto”. La conseguenza era che gli altri altri vincevano e lui no.
Nonostante ciò non odiava il mondo del ciclismo, anzi. Spesso, per seguire importanti gare, lasciava la moglie e la figlia piccola e affrontava lunghe salite in bicicletta sulle principali vette italiane e francesi. Lo faceva solo per applaudire il campione del momento, sempre sperando che il suo sudore fosse genuino.
A distanza di anni la bicicletta lo rilassava ancora. Quando era arrabbiato, triste, o impaurito come quella sera, si sfogava e scaricava la tensione sui pedali.
Aveva finito di parlare con Fossati da quasi due ore e in quel lasso di tempo aveva percorso le vie romane semideserte e battute da una pioggerellina fina quanto la nebbia.
Da Villa Borghese era andato prima verso lo stadio Olimpico, per poi cambiare idea. Aveva girato la bicicletta ed era tornato indietro lungo la Flaminia, verso piazza del Popolo. Era sceso verso piazza del Parlamento, aveva percorso via delle Colonne e si era ritrovato in piazza del Pantheon. Alla fine, mettendo sempre maggior foga sui pedali, si era diretto verso piazza Navona, via Vittorio Emanuele, via Giulia e infine il Lungotevere del Sangallo. Un lungo giro, ma nulla in confronto alle sgroppate di duecento chilometri che faceva sulle Dolomiti durante le vacanze estive.
“Perché è scappato?”. Le parole di Fossati gli tornavano ciclicamente in testa.
Perché? I cadaveri dei ragazzi li aveva visti lui!
Pina riverso sul pavimento, in un lago di sangue appiccicoso, con il braccio teso verso la scrivania. Cécile immobile, supina, con gli occhi sbarrati verso la cupola del laboratorio.
Ne aveva visti, di cadaveri. Ma quelli erano suoi… erano suoi amici.
Voltò su per il vicolo del Cefalo, tornando ancora una volta indietro. Era una strada talmente stretta che, a causa della fila di veicoli parcheggiati, permetteva solo il transito di auto molto piccole… o di una bicicletta contromano, come la sua.
Quando fu nuovamente in via Giulia voltò a destra. Vide una giovane donna con il cagnolino al guinzaglio dalla parte opposta della strada, oltre le macchine parcheggiate con le quattro frecce inserite.
Nel silenzio irreale della città si sentiva solo il cigolio ritmico della catena sui pedali. Il sottofondo del traffico era lontano.
Ma quel rumore lo udì bene.
Veniva da destra, da via del Gonfalone.
Qualche idiota si stava divertendo a sgommare.
Lupatelli rallentò quando fu nei pressi dell’incrocio.
Li vide con la coda dell’occhio: due fari alti venire verso di lui. Fu come un colpo di cannone.
L’auto non rallentò.
Poco prima del tremendo impatto, Lupatelli chiuse gli occhi.
Poi si sentì volare, lanciato nel vuoto.
Atterrò poco distante, rotolando sull’acciottolato.
Quando il suo corpo si fermò, supino, provò a muovere qualche muscolo. Non ci riuscì, allora cercò di alzare lo sguardo. La vista era sfocata.
L’auto, una grossa Hummer scura, era spiaccicata contro il muro, vicino un portone ad arco. Aveva completamente disintegrato la bicicletta, che era andata ad arrestare la sua corsa contro la grata di una finestra.
Lui era a tre metri di distanza, sdraiato e immobile. Non sentiva nessun dolore, solo un freddo crescente.
Vide l’auto fare retromarcia, rombare insistentemente e andarsene lungo via Giulia con la stessa velocità con la quale l’aveva investito.
Gli mancava il respiro e la vista si stava annebbiando.
Prima di perdere conoscenza gli parve però, nel buio, di riuscire a scorgere l’autista. Se fosse stato lucido, avrebbe giurato che era l’uomo con l’impermeabile che aveva visto al parco.