PROLOGO
Monaco di Baviera, Germania,
giovedì 13 febbraio, ore 11:50
La morte arriva all’improvviso.
Nessun rumore. Nessun sibilo. Solo il silenzio.
Come in un film muto vide una bandierina che sventolava festante. Si protendeva davanti a lui, sopra di lui, vicinissima, agitata al rallentatore da due esili braccia.
Osservò meglio la scena, con il distacco tipico di chi osserva una sventura altrui. La piazza era gremita di gente. Vedeva sguardi felici, palloncini colorati, una banda musicale di cui non udiva neppure una nota. E poi la bandierina, proprio davanti ai suoi occhi, agitata al rallentatore da una bimba con le trecce e un sorriso sdentato.
Ma tutto era avvolto nel silenzio. Ad accompagnarlo c’era solo il battito del suo cuore che si faceva sempre più insistente.
Alzò lo sguardo in direzione della torre del municipio. Il grande carillon sospeso sulla facciata, il Glockenspiel, era immobile come in un’istantanea. L’orologio segnava le dodici in punto.
Il presidente si voltò ancora. Davanti a sé adesso vedeva due ali di folla: applausi, visi allegri e mani tese che cercavano di sfiorarlo. Tutto ovattato, nel silenzio.
Le tempie gli pulsavano e cominciava a mancargli l’aria. Era solo, in piedi, e cominciò a girare su se stesso. Non riusciva più a mettere a fuoco nessuna immagine, soltanto scie colorate che gli giravano attorno.
«Siamo quasi arrivati!». Una voce irruppe nel sogno.
Alberto Zorzi si voltò di scatto. Era sprofondato nel sedile posteriore di un’auto e i palazzi di Monaco di Baviera scorrevano veloci fuori dal finestrino. La moglie Jelena gli sedeva a fianco.
«Ci siamo quasi, sistemati la cravatta», ripeté la donna, sorridente.
Il presidente del Consiglio dei Ministri scosse la testa. La stanchezza per l’intenso programma a cui si era sottoposto durante quella settimana cominciava evidentemente a farsi sentire.
Nei giorni precedenti aveva partecipato a numerose riunioni e, nella notte, aveva anche affrontato un lungo “fuori programma”. In meno di sette giorni aveva rilasciato decine di interviste lasciandosi purtroppo sfuggire una battuta infelice sulla politica estera: «Appoggeremo Israele nella lotta al terrorismo di Hamas». Ci credeva davvero ma, considerato il momento, sarebbe stato senz’altro meglio tacere.
Visto come era andato l’incontro della notte precedente aveva però ben altri pensieri che lo tormentavano: doveva proseguire nel suo programma o doveva fermarsi?
Chiuse l’agenda di pelle che teneva sulle gambe e l’appoggiò sul sedile. Era convinto: ormai non si poteva tornare indietro.
Monaco di Baviera e la riunione con il primo ministro tedesco erano l’ultima tappa del viaggio. Se davvero voleva andare fino in fondo era la più importante: Peter Sattelmaier, recentemente rieletto, era un osso duro. Anche se in passato, come i francesi, aveva appoggiato i suoi progetti, sapeva che avrebbe dovuto sfoderare le sue migliori arti oratorie per convincerlo.
Il convoglio presidenziale era composto da quattro motociclette, tre SUV neri, tre auto della polizia, un mezzo blindato e un’ambulanza. Svoltò sulla Löwengrube, costeggiò la cattedrale in marmo di Carrara e proseguì a velocità sostenuta.
Il percorso era stato programmato da settimane. Poi, per sicurezza, il giorno precedente era stato modificato. Tutte le strade interessate, anche quelle che non sarebbero state utilizzate, erano state chiuse per l’occasione. Ogni svincolo era presidiato da camioncini della polizia tedesca e sui tetti dei palazzi erano stati dislocati tiratori scelti. Nel cielo, tre elicotteri neri giravano in circolo vigilando sulla sicurezza del vertice.
A differenza di quello che aveva visto in sogno, Zorzi non sarebbe arrivato nell’edificio del Rathaus da Marienplatz, la piazza centrale di Monaco di Baviera. Il fuoristrada nero con a bordo il presidente del Consiglio italiano – che in quel periodo era alla guida del governo di turno alla presidenza dell’Unione Europea – si sarebbe invece immesso in uno dei cortili dalla via posteriore, quella affacciata sul parco.
«Credi che sarà una cosa lunga?», domandò Jelena. «Io ho fame».
«Il primo ministro tedesco è molto formale», chiarì Zorzi mentre aggiustava il nodo della cravatta. «Molto più di me…».
«Presidente!», una voce interruppe Zorzi. Era Thomas La Forte, il capo della PES – la Personal Escort Section – e parlava dall’interfono. «Tra due minuti saremo a destinazione. Il presidente Sattelmaier la attenderà nel cortile d’onore».
«Perfetto. Grazie mille».
Dal vetro oscurato del SUV comparvero le siepi e gli alberi del giardino pubblico alle spalle del municipio. Le auto lo superarono e proseguirono fino a un imponente portone: era bardato con stendardi dorati e grandi bandiere dell’Unione Europea.
Sui lati della strada erano state sistemate numerose transenne, dietro le quali sostavano numerosi curiosi.
Il convoglio varcò il cancello senza rallentare e si fermò proprio in uno dei sei cortili del palazzo del municipio.
Zorzi cercò di sporgersi da dietro il vetro, ma da quella posizione riusciva a scorgere solo una fila di finestre disposte su due piani. Sapeva che oltre la complessa architettura del palazzo c’era la splendida piazza centrale di Monaco, dominata dalla torre neogotica e dal carillon che aveva visto in sogno. Ma da lì poteva solo immaginarli.
Prima che il premier Zorzi e la moglie scendessero, gli uomini della scorta fecero una serie di verifiche con i metal detector. Infine fu aperta la portiera.
Alberto Zorzi si fermò su un lungo tappeto rosso. Indossava un abito scuro, una cravatta champagne e delle scarpe di vernice che gli facevano male ai piedi. La moglie Jelena, splendidamente avvolta in un tubino azzurro e con un vistoso cappello in testa, stava un passo dietro di lui.
Il presidente sorrise.
Due uomini in alta uniforme, bardati con medaglie luccicanti, gli si fecero incontro tendendo la mano. «Primo ministro, ben arrivato», proclamò il più basso in un inglese perfetto.
Sattelmaier era immobile, anche lui sul tappeto, dalla parte opposta del cortile. La moglie e alcune guardie del corpo stavano al suo fianco.
Una banda, in lontananza, aveva cominciato a suonare la Nona sinfonia di Beethoven: l’inno dell’Unione Europea.
E poi il silenzio. All’improvviso.
Non fu come nel sogno. Non se ne accorse neppure. Non vide bambini sorridenti e bandierine sventolanti.
Nessun rumore. Nessun sibilo. Solo il silenzio.
Zorzi fece un passo indietro perdendo l’equilibro. Cadde quasi in braccio alla moglie.
Gli uomini della scorta gli si avvicinarono in una frazione di secondo, cercando di proteggerlo con le loro figure imponenti.
Nel frattempo la donna si era inginocchiata e tentava di sorreggere il marito.
Urla di paura sostituirono la musica intonata della banda, che d’un tratto aveva smesso di suonare.
«Hanno sparato!», urlò qualcuno.
«Il presidente è ferito!».
Contemporaneamente, dalla parte opposta, erano scattate le misure di sicurezza anche per il presidente tedesco. Fu spinto a forza dentro l’edificio e le porte vennero sbarrate.
I mirini elettronici degli agenti del Kommando Spezialkräfte, le forze speciali appostate sui tetti, spaziarono da una finestra all’altra del cortile. Ma senza esito, erano tutte chiuse.
Gli uomini della PES, intanto, si erano catapultati giù dal blindato con le pistole in pugno.
Da un secondo all’altro si attendeva una pioggia di fuoco, a cui erano pronti a rispondere colpo su colpo. Giravano su se stessi e puntavano le pistole verso l’alto. Ma non c’era nessuno contro cui sparare.
Un solo colpo ed era già tutto finito. Ancora prima di iniziare.
Uno degli elicotteri della scorta si abbassò, a volo radente, fino a pochi metri dalla torre dell’orologio, poi cominciò a girare in circolo proprio sopra l’edificio.
Il presidente Zorzi era sdraiato in una posizione innaturale sul tappeto rosso. Dall’alto si vedeva un capannello di uomini che si stava posizionando tutto intorno, formando una sorta di cintura umana.
La porta del SUV era ancora spalancata e la moglie era seduta con la testa del marito tra le mani e il vestito insanguinato.
«Aria, per favore. Aria…», gridò La Forte, che era stato il primo ad avvicinarsi al presidente e adesso era inginocchiato accanto a lui.
Ma non era più necessario: il presidente era stato colpito alla tempia e le orbite degli occhi erano rivoltate all’indietro.
Alcuni agenti si misero le mani nei capelli. Qualcuno imprecò, altri si guardarono intorno spaesati.
Solo un uomo non sembrava essere stato preso alla sprovvista. Era alto, completamente pelato e magro come un chiodo. Indossava lo stesso abito nero degli agenti della PES e, come gli altri, si era avvicinato all’auto del presidente.
Fingendo di guardare all’interno del veicolo in cerca di indizi, individuò ciò che stava cercando: una piccola agenda con la copertina di pelle rossa.
La afferrò e, nella confusione del momento, se la infilò nella tasca della giacca senza essere visto.
Jelena aveva gli occhi sgranati. Incredula. L’ambulanza si mise in moto e cominciarono a echeggiare nell’aria le sirene della polizia.
Ma Zorzi non poteva udirle.
La morte arriva silenziosa, all’improvviso.