CAPITOLO 23
Ore 13:15
Cécile aveva il respiro affannoso e la gamba le doleva per la ferita.
L’aria dentro la sala autoptica era gelida.
Dal punto in cui era, poteva osservare tutto il laboratorio. Al di là del vetro antiproiettile si sentiva ancora la musica degli AC/DC. I due aggressori in uniforme non sembravano per nulla agitati.
Dopo avere spento il piccolo incendio provocato dalla caduta dell’armadietto, adesso uno dei due stava esaminando un computer. L’altro leggeva dei documenti sulla scrivania di Lupatelli. Sembravano molto tranquilli. Avevano sparato a Pina e adesso sapevano che lei era in trappola: da lì non avrebbe potuto scappare.
Si acquattò dietro al vetro, in maniera che dalla parte opposta non potessero scorgerla.
Chi erano quegli uomini?
La giovane agente scosse la testa, impaurita. Non aveva nessuna via di fuga. Si toccò nuovamente i pantaloni alla ricerca di qualcosa. Si alzò e si sporse oltre il vetro.
Dietro la colonna, illuminata da un fascio di luce bluastra, c’era la sua postazione: il cellulare era lì, non aveva fatto in tempo a prenderlo.
Ma come avrebbe potuto? Le avevano sparato addosso…
Uno dei due si mosse verso di lei. Era quello che, fino a un attimo prima, stava esaminando le postazioni informatiche.
Si avvicinò con calma al vetro antiproiettile, con la pistola stretta in pugno.
Si sporse per guardare dentro e la individuò senza fatica nella luce soffusa della sala.
La ragazza indietreggiò, andando a sbattere contro il tavolo autoptico. Il corpo di David Green era lì, immobile, coperto solo da un lenzuolo verde dal quale uscivano due piedi bianchi e ossuti.
Il polonio poteva contagiarla?
Scosse la testa. La radioattività si sarebbe trasferita solo se la sostanza fosse venuta a contatto con la sua pelle.
Girò attorno al lettino d’acciaio dando le spalle alla vetrata.
Lì dentro era al sicuro, il vetro era antiproiettile e la porta blindata.
Sul bancone c’erano i ferri da anatomopatologo. Osservò il piccolo bisturi con il manico bianco. Si domandò se potesse usarlo per difendersi.
Un ticchettio attirò la sua attenzione.
Si voltò lentamente.
Uno degli agenti in uniforme le sorrideva picchiettando la canna della Beretta contro il vetro. Ma nell’altra mano…
Cécile si voltò velocemente e afferrò il bisturi. Era piccolo ma almeno molto tagliente.
L’uomo, dalla parte opposta del vetro, le sorrideva. «Sei in trappola. Da lì non puoi scappare». In una mano teneva la pistola, nell’altra stava sventolando un tesserino magnetico.
Cécile si ricordò: quegli uomini erano entrati senza suonare il campanello. Se li erano trovati nell’atrio, dietro la porta scorrevole. Significava che avevano la chiave magnetica per aprire le serrature… anche quella della sala autoptica.
«Non puoi andare da nessuna parte e sei ferita!», sussurrò con voce calma mentre si avvicinava alla porta.
La ragazza guardò la ferita sulla coscia. Non era un taglio da poco. Era davvero sicura che il proiettile fosse uscito?
In un secondo, l’adrenalina che l’aveva tenuta in piedi la abbandonò.
Era una ferita seria. L’arteria femorale, forse. Se era così, difficilmente sarebbe sopravvissuta senza i soccorsi. Ma adesso aveva problemi ben più seri.
Un altro rumore la fece sussultare.
Un colpo di proiettile si infranse sul vetro dalla parte opposta e rimbalzò lontano. La vetrata rimase integra.
La ragazza non capì immediatamente.
Uno dei suoi assalitori si era abbassato di colpo. Il proiettile non era stato sparato dagli aggressori.
Cécile si voltò verso il fondo del laboratorio. Valerio Pina era in piedi.
Era arrivato al cassetto della scrivania della ragazza e aveva estratto l’arma.
Un altro sparo. A vuoto.
Un lampo di speranza si dipinse negli occhi di lei. Ce l’avrebbe fatta!
Pina era in piedi e fece fuoco un’altra volta. Di nuovo a vuoto.
Erano in un seminterrato. Il rumore rimbombò fragoroso ma non poteva sperare che dai piani di sopra qualcuno lo avvertisse: le pareti erano troppo spesse.
Uno dei due agenti, quello che aveva letto i documenti di Lupatelli, si mosse con circospezione e puntò l’arma con due mani.
Prese la mira. Tre colpi. Uno dopo l’altro.
In un secondo le speranze di Cécile si dissolsero.
I proiettili andarono tutti a segno, direttamente sul volto di Valerio Pina, orribilmente sfigurato.
«Io ho finito. Ho preso tutto». L’uomo che aveva appena sparato si rivolse al collega ancora nei pressi del vetro autoptico. Era impassibile, di cera. Ripose l’arma con una calma glaciale e poi sistemò alcuni documenti estratti dal fascicolo in una ventiquattrore.
«Tu hai fatto tutto?», domandò.
L’altro agente fece cenno di sì con la testa. «Risolviamo il problema più pesante, adesso!».
L’agente aprì la porta della sala autoptica facendo scorrere lentamente la tessera magnetica e si trovò di fronte la ragazza.
Paralizzata dalla paura, Cécile teneva il bisturi in mano, ma non riusciva più a muoversi, neppure di un millimetro. Avrebbe voluto camminare all’indietro, come un granchio, ma le gambe non rispondevano.
«Mi spiace», sibilò l’uomo più alto.
Puntò l’arma senza esitare come aveva fatto in precedenza. Digrignò i denti e nel silenzio fece fuoco.
Cinque minuti dopo i due uomini portarono a termine il lavoro che era stato loro ordinato.
Il più anziano avvicinò una barella con le rotelle al cadavere di Green e, insieme al collega, vi trasferì sopra un pesante sacco nero.
Cécile aveva osservato tutto. Teneva le palpebre socchiuse ed era in uno stato di semincoscienza.
Aveva visto i due uomini in uniforme muoversi al rallentatore. Li aveva guardati come se fossero delle fotografie sfocate, con degli strani aloni che seguivano i loro movimenti.
I due si erano infilati dei guanti di lattice, avevano impacchettato il corpo di David Green e l’avevano sistemato dentro un sacco. Poi si erano mossi insieme, quasi in un balletto, e avevano trasferito il tutto sulla barella.
Erano usciti in silenzio, esattamente come erano arrivati, portando con sé il cadavere chiuso nel contenitore sterile.
L’ultima cosa che vide, prima di perdere conoscenza per sempre, fu la porta che si chiudeva.