CAPITOLO 32
Roma, ore 19:50
Un’altra casualità? L’ennesima?
Se Fossati aveva ancora dei dubbi, la telefonata della polizia stradale li fugò in un lampo.
Lupatelli era stato investito nello stesso giorno in cui Pina e la Cissé erano stati ammazzati. Nello stesso giorno in cui avevano ritrovato il cadavere di Green e rinvenuto una miriade di indizi che lo collegavano alla morte di Zorzi.
Lupatelli gli aveva detto di avere paura solo un paio d’ore prima.
“Le coincidenze non esistono! Cazzo!”.
Aveva parcheggiato la moto lungo il muro di uno dei palazzi antichi che costeggiavano via Giulia. Gli accessi alla piccola strada erano stati delimitati con del nastro bianco e rosso ma, complice l’orario di cena e la zona estremamente centrale, una folla di curiosi aveva cominciato ad ammassarsi lungo via del Gonfalone. Altri osservavano la scena affacciati alle finestre dei piani superiori. Sembrava che nessuno avesse mai visto un incidente mortale.
Piovigginava. Insieme ad alcuni vigili, a diversi agenti della polizia locale e a due auto della Polstrada ferme nel mezzo della carreggiata, era arrivata anche un’ambulanza con i lampeggianti spenti.
Si era mossa silenziosamente, aveva fatto manovra e si era avvicinata in retromarcia facendosi largo tra le numerose paia di gambe presenti sul luogo dell’incidente. Due paramedici avevano aperto le porte e stavano caricando una barella coperta da un lenzuolo bianco.
«Mi scusi se l’abbiamo disturbata», bofonchiò uno degli agenti, «ma l’ultimo SMS della vittima è stato inviato al suo numero. E dal tono, la vittima sembrava molto preoccupata».
«Avete fatto bene». Fossati stava immobile, rannicchiato sotto l’ombrellino nero. Le serrande dei pochi negozi erano abbassate. Lungo i muri degli edifici, che alla luce dei lampioni assumevano una colorazione fiabesca, erano parcheggiate da entrambi i lati numerose automobili.
«Comunque, il pirata proveniva da lì», proseguì l’agente, gesticolando.
Il PM si voltò, per capire quale potesse essere stata la dinamica esatta e da quale direzione fosse arrivata la bicicletta. La osservò: era un ammasso metallico buttato poco lontano e sembrava passata sotto le ruote di un treno.
«L’auto è andata diritta e deve averlo sbattuto contro il muro. Nessun segno di frenata. In ogni caso verificheremo se ci sono telecamere di sorveglianza». L’agente gesticolò ancora con la paletta per dirigere il traffico, indicando il portone di un edificio. Di fianco, alcune grate in ferro proteggevano le finestre al piano terra e sulla sinistra c’era la vetrina di un negozio apparentemente sfitto.
«Il colpo deve essere stato tremendo!».
Fossati continuava a rimanere in silenzio, ma la sua mente era come un vulcano in attesa di eruttare. Ormai non c’era più alcun dubbio. Tutto era collegato.
«C’è qualche testimone?», si informò, quasi a voler dare all’accaduto una connotazione che lo ricollocasse nell’alveo della normalità.
«Una donna. Laggiù».
A una decina di metri da lui, oltre l’altra gazzella della polizia e all’ambulanza, c’era un altro capannello di gente.
Fossati la individuò. Anche la ragazza stava gesticolando. Aveva un cagnolino grande come un topo al guinzaglio e indossava una tuta da ginnastica verde pisello.
«Dice che l’auto era una grossa jeep e che non ha minimamente rallentato. È andata dritta e… boom!», l’agente disegnò un grande cerchio con le mani, mimando l’esplosione. «E poi ha fatto retromarcia e se n’è andata!».
Fossati si avvicinò al muro e lo sfiorò con il dito indice. La vernice dell’auto e il segno dell’impatto erano perfettamente visibili. Pezzi della bicicletta erano sparsi nel raggio di alcuni metri. Voltò il capo per vedere la macchia nera di sangue sulla strada.
Rimase folgorato.
Il riflesso nella vetrina del negozio sfitto lo fece trasalire.
Oltre il nastro che delimitava la zona, alle sue spalle, c’erano una ventina di curiosi. Appena dietro, a non più di cinque metri, un’auto scura parcheggiata.
Fossati si inginocchiò e, fingendo di esaminare la macchia coagulata, continuò a scrutare nel riflesso nella vetrina.
L’autista dell’auto era in piedi con le braccia conserte accanto al veicolo. Indossava una giacca di pelle e assomigliava in modo incredibile a padre Claudio. Forse era più giovane, ma i lineamenti squadrati e il naso aquilino erano decisamente simili.
L’uomo teneva lo sguardo fisso sull’ambulanza. Il corpo di Lupatelli era stato caricato e le porte appena chiuse.
L’aveva già incontrato. Era sicuramente il tizio che stava parlando con Baldacci proprio quando lui era arrivato in via Tuscolana, quel pomeriggio. Non era una coincidenza, era lo stesso uomo.
Fossati si alzò in piedi di scatto, stando bene attento a non voltarsi verso il sosia più giovane di padre Claudio. Salutò e si avviò verso la moto senza dare alcuna spiegazione.
Il poliziotto rimase immobile a osservarlo, quasi stupito di quel congedo così improvviso.
“Le coincidenze non esistono. Cazzo!”. Il magistrato montò in sella, fece rombare i centottantasei cavalli dell’MV Agusta e partì come un razzo.
Non si accorse che nel frattempo l’auto nera parcheggiata lì vicino si era mossa.
A pochi chilometri di distanza, l’ufficio semibuio, che fino a pochi minuti prima era stato occupato da Lorenzo Fossati, era deserto e avvolto in un silenzio da biblioteca.
Il ragazzo delle pulizie aveva finito il suo giro e la ronda di perlustrazione sarebbe ripassata non prima di un’ora.
Il monitor del computer accesso era l’unica fonte di luce. Uno screensaver azzurro dava l’impressione che nella stanza ci fosse un acquario popolato da esotiche specie ittiche.
D’un tratto, il fondo dell’oceano scomparve senza che nessuno comandasse il computer. Al suo posto apparve l’ultima schermata vista dal pubblico ministero: una pagina completamente nera e l’indirizzo URL www.greyswan.eu.
Poi la schermata cambiò. Come se il computer fosse controllato da un fantasma, in pochi istanti comparvero cartelle di file, fotografie ed email.
Infine la spia della webcam si accese.