CAPITOLO 83
Venezia,
domenica 9 marzo, ore 21:50
La sera delle primarie, Luca Zorzi era teso. Nonostante i numerosi sorrisi che aveva elargito ai molti giornalisti presenti, non era affatto sicuro che il risultato sarebbe stato quello da lui sperato.
Erano passati dieci giorni dalla morte di Arianna Manzoni ed era ancora sconvolto.
Lucrezia l’aveva fatta uccidere da un aguzzino degno di un lager nazista. Certo, la giornalista cominciava a diventare asfissiante e, prima o dopo, avrebbe rovinato la sua immagine. Ma risolvere il problema in quel modo… e soprattutto, sapere di vivere accanto a un’assassina di quel tipo era assolutamente sconvolgente.
Avrebbe potuto impedirlo? L’investigatore privato lo aveva avvisato per tempo che Lucrezia meditava un qualche tipo di vendetta per il suo tradimento, ma non poteva certo immaginare una cosa simile…
Ma l’ansia dipendeva anche da altro: prima o poi Lucrezia avrebbe deciso di togliere di mezzo anche lui? Appena saputo di Arianna si era fatto quella domanda decine di volte ed era arrivato sempre alla stessa conclusione: non era affatto in pericolo; lui era la gallina dalle uova d’oro, il marito perfetto e il simbolo della famiglia perfetta. E Lucrezia aveva bisogno di tutto ciò.
E se le primarie fossero andate male? Dopotutto non era affatto scontato che riuscisse a spuntarla contro Rosati. Certo, la sua campagna era stata all’insegna della correttezza e le sue apparizioni televisive erano state decisamente più significative di quelle della “Vecchia volpe”. Poi c’era stata la puntata del Filo di Arianna di due settimane prima: quella sì che aveva lasciato il segno. Ne era uscito vincitore.
Se anche le primarie fossero andate male non sarebbe cambiato nulla, ci sarebbero state altre occasioni.
Luca Zorzi si assestò sul divanetto della sala del municipio di Venezia, che aveva eletto a sede del comitato elettorale. Erano le ventuno e cinquanta. Entro dieci minuti si sarebbero chiusi i seggi delle primarie e sarebbe cominciato lo spoglio.
Lucrezia stava accanto a lui con lo sguardo fisso sul televisore: si vedeva un gazebo in una piazza e decine di persone ancora in coda per esprimere la loro preferenza.
«I dati non sono ancora ufficiali», diceva il giornalista, avvolto in un ingombrante giubbotto con cappuccio. «Gli organizzatori parlano però di un grande successo. Sembra che si siano recate alle urne quasi cinque milioni di persone».
Lucrezia si voltò verso Zorzi. «Sono tutti voti tuoi!». Lo guardò intensamente e gli strinse la mano.
Il fotografo personale non si fece scappare l’attimo e immortalò la scena che, più tardi, sarebbe finita sul profilo Facebook di Luca Zorzi. La campagna, sotto quell’aspetto, era stata decisamente più innovativa di quella di Rosati: il popolo di Internet, quello che per la prima volta aveva potuto votare da casa, certamente avrebbe fatto la differenza.
Nella stanza, arredata in modo sobrio ma con grandi arazzi alle pareti, c’erano ovunque adesivi e manifesti di Zorzi sorridente. Mary Capraro fissava anche lei il monitor dove scorrevano i dati dell’affluenza.
«Siamo in grado di darvi i primi exit poll», annunciò il giornalista alle ventidue in punto. In TV comparve un primo cartello, che mostrava due colonnine rosse e sulla sinistra i volti dei due candidati principali.
«Grande!», esclamò la Capraro.
Zorzi non credeva ai suoi occhi.
Lucrezia scattò in piedi come una molla.
In TV, accanto alle colonnine, comparvero le percentuali: settantatré Zorzi, ventiquattro Rosati.
«Calma, calma!», proclamò il sindaco, che non riusciva a credere a un’affermazione così netta. «Sono solo exit poll. Aspettiamo i definitivi!».
Ma non c’era modo di frenare l’allegria. Qualcuno cominciò a bussare alla porta e i cellulari cominciarono a squillare. Un urlo e un fragoroso applauso si levarono dalla stanza a fianco, dove erano accampati numerosi giornalisti.
Lucrezia abbracciò il marito con foga e lo baciò più volte sulle labbra. Erano mesi, pensò Luca, che non era così espansiva. Le mani sporche del sangue di Arianna evidentemente non la inquietavano affatto. «Hai vinto. Te l’avevo detto! Siamo una grande squadra».
“Siamo una grande squadra”.
Luca Zorzi sorrise, gli mancava il fiato per l’emozione. «Aspettiamo i risultati ufficiali!», ripeté ostinato.
«Congratulazioni, presidente». La Capraro si voltò di scatto e gli tese la mano. Anche lei aveva uno sguardo fiero e orgoglioso. Anche lei aveva ottenuto qualcosa: la sconfitta di Rosati. Saperlo triste e arrabbiato era per lei una grande soddisfazione. «Direi che con questi numeri non è il caso di preoccuparci».
«Devi fare una dichiarazione», lo spronò Lucrezia. «Gli italiani ti devono vedere immediatamente».
Luca Zorzi, preso dal turbinio di voci, di congratulazioni e di mani da stringere, si lasciò scappare un sì. «Avvisate i giornalisti. Alle ventitré rilascerò una dichiarazione in sala stampa…».
Mentre parlava squillò il cellulare. Zorzi osservò il display e si lasciò andare a un sorriso: era Carlo Maria Rosati. Se lo chiamava così presto per congratularsi significava che era davvero fatta.
Un’ora più tardi stava per entrare nella sala stampa del municipio di Venezia, gremita come non mai. Sulla destra c’era Lucrezia, che aveva coordinato la campagna, e sulla sinistra Mary Capraro.
Luca Zorzi varcò la soglia sorridente, si accomodò su una poltroncina e si avvicinò ai numerosi microfoni che erano stati sistemati sul tavolo. «Buonasera a tutti», cominciò con voce squillante. «Amici… è con genuina, e penso comprensibile commozione, che mi rivolgo a voi. Ringrazio i colleghi di partito che si sono esposti, esprimendo la loro fiducia nei miei confronti e, con pari franchezza, quanti non lo hanno fatto per logici e più che comprensibili motivi politici».
Una telecamera, che stava riprendendo in diretta il discorso per una TV satellitare, si avvicinò al tavolo. Zorzi la osservò e poi proseguì.
«È mio dovere ringraziare anche Carlo Maria Rosati, un avversario leale che si è subito congratulato con me. Come i più recenti tra i miei predecessori, primo fra tutti mio fratello Alberto, senza il quale non sarei la persona che sono e soprattutto non sarei qui. Voglio chiarire che sono fortemente convinto della bontà dei valori che hanno ispirato il mio impegno politico».
La voce di Luca Zorzi ebbe un tremito, quasi che quelle parole avessero smosso qualcosa in lui.
«I valori del lavoro, della religione, della famiglia. Scusate se mi soffermo ancora su questo, ma come tutti sapete, se io sono vivo, oggi, il merito è di mio fratello Alberto, che con un supremo atto di generosità mi donò un rene».
Quella frase fu accompagnata da un commosso silenzio. Tutti, dopo la trasmissione di Arianna Manzoni erano venuti a conoscenza di quell’episodio, e i maligni avevano avanzato l’ipotesi che fosse stato reso noto proprio per fargli guadagnare popolarità. Qualunque fosse il motivo, comunque, la cicatrice che Luca Zorzi portava sul fianco era il segno inequivocabile della generosità del fratello.
Il politico estrasse il fazzoletto dalla giacca e si asciugò una lacrima, questa volta sincera.
«Ho ben chiaro che il primo dovere dell’alta carica istituzionale che mi aspetta è quello del rigoroso rispetto del principio di assoluta parità di diritti e della democratica dialettica tra maggioranza e minoranza», proseguì. «In me, se il capo dello Stato me lo chiederà, il Paese troverà una nuova guida. La mia porta sarà sempre aperta e insieme ricominceremo prima a camminare e poi a correre!».
Zorzi concluse tra gli applausi venticinque minuti dopo. Si alzò dal tavolo soddisfatto del discorso che aveva appena pronunciato e consapevole che, da quel momento, avrebbe avuto inizio una lunga e faticosa attività.
Mentre usciva dalla stanza, senza sapere neppure il perché, gli tornò in mente il fascicolo che aveva ricevuto alcuni giorni prima: Proposta di modifica della direttiva 11.110 sullo sviluppo economico. Per la presidenza di turno dell’Unione Europea, Luca Zorzi, PCM. Quel fascicolo lo identificava già come presidente ancora prima che le primarie fossero state fatte. In cambio della fiducia gli si chiedeva di firmare una lettera per abrogare una legge voluta proprio da suo fratello.
Lui aveva firmato. Esattamente come tutti gli altri prima di lui, Alberto escluso.
Per avere quella possibilità, qualche giorno prima di ricevere il fascicolo, si era inginocchiato, con un cappio al collo e un cappuccio sulla testa, in una loggia dal pavimento a scacchi. Lì, a torso nudo, con la cicatrice bene in vista, aveva fatto un solenne giuramento teso al perfezionamento dell’individuo.
E poi, loro, erano stati di parola: gli avevano fatto recapitare al suo hotel romano quella lettera e un fascicoletto blu. E, soprattutto, avevano scommesso su di lui. Quello che Zorzi non sapeva, e non avrebbe mai saputo, era che loro avevano inviato documenti analoghi anche all’altro candidato, Rosati. Comunque fosse finita… loro avrebbero vinto.
A mille chilometri di distanza, Carlo Maria Rosati era in piedi con un viso da funerale. La conferenza stampa di Zorzi era appena finita e non era stato il peggior avvenimento della serata. La cosa che gli era costata di più era stata la telefonata che aveva dovuto fare. Dopotutto, però, nelle democrazie si usa così: lo sconfitto si complimenta con il vincitore.
Mentre, sconsolato, guardava un foglio appena stampato, scuoteva la testa: la sua performance elettorale era stata catastrofica. I dati dallo spoglio, ormai quasi completi, lo davano al ventuno percento. Lo appallottolò e lo buttò nel cestino.
Pazienza, si sarebbe risollevato anche da quel colpo. Se Zorzi non era uno stupido, una volta premier gli avrebbe confermato il suo ministero. Poteva già essere un buon risultato, dopotutto lui restava sempre a galla.
Nel suo comitato elettorale, allestito in un sontuoso albergo della capitale, c’erano ancora molti militanti, tutti con visi funerei. Alcuni gli si facevano incontro con faccia triste e gli stringevano la mano, altri lo rincuoravano, altri ancora gli passavano davanti senza osare guardarlo negli occhi.
Accanto al tavolo principale, quello su cui erano sistemati panini e bevande, c’era un uomo appena arrivato: era calvo e aveva un pizzetto biondo. Si avvicinò ai bicchieri, ne riempì due di acqua frizzante, selezionò accuratamente una scorza di limone e la mise in uno soltanto.
Poi si avvicinò a Carlo Maria Rosati.
«Ministro, sono molto dispiaciuto», borbottò cupo.
Rosati annuì e tese la mano.
L’uomo, che nascondeva un piccolo ago nel polsino della camicia, gliela strinse con decisione e sfiorò con la punta la pelle del ministro.
Rosati, istintivamente, ritrasse il braccio ma, poiché si era trattato solo di un lieve fastidio, non protestò. Prese il bicchiere con la scorza di limone e si limitò a sospirare. «Si vince e si perde, caro amico», replicò amaro senza avere la minima idea di chi fosse il suo interlocutore.
L’uomo sorrise. La carriera di Rosati era finita e lui lo sapeva meglio degli altri. Oltre a essere incluso in una fastidiosa lista redatta da Alberto Zorzi – che si prevedeva sarebbe stata resa pubblica entro breve – aveva un difetto ancora più grande: aveva perso le primarie, la sua unica occasione di uscirne pulito.
«Se proprio sarà necessario, si uccideranno le persone nell’elenco, gli anelli deboli che si sono fatti scoprire!». Lo aveva detto qualche giorno prima un professore a due perfetti sconosciuti e, benché l’uomo con il pizzetto non lo conoscesse di persona, era la cruda realtà. Si congedò rispettosamente e uscì in fretta dall’hotel.
Alcuni minuti dopo, Carlo Maria Rosati cominciò a sentire molto caldo. Si slacciò la cravatta e poi si tolse la giacca. Ma il caldo non passava. Il ritmo delle sue pulsazioni aumentò vertiginosamente e un lieve formicolio gli prese il braccio sinistro. Più trascorrevano i secondi, più quel fastidio si faceva insistente.
Rosati, madido di sudore, si lasciò cadere su una poltrona vicino alla finestra. Faticava a respirare e sentiva il muscolo cardiaco battere con sempre maggiore insistenza nella cassa toracica. «Apri!», ordinò a un inserviente che stava raccogliendo i calici di champagne che non erano stati utilizzati. «Chiamate un’ambulanza, sto per avere un infarto». Una ragazza dai capelli biondi gli si avvicinò con uno sguardo terrorizzato e il cellulare tra le dita.
La sostanza con la quale era stato punto era stata messa a disposizione di Valera, per ringraziarlo del favore sul polonio. Si trattava di uno dei ritrovati più collaudati dell’Israeli Institute for Biological Research. Un liquido estremamente volatile – usato più volte in passato anche dal Mossad – che a contatto con il sistema cardio-circolatorio e l’acido del limone provocava una stenosi critica delle arterie e un conseguente infarto del miocardio.
Nessuna autopsia o analisi avrebbe in seguito rivelato l’esistenza di sostanze estranee e il grave deficit di flusso sanguigno del ministro sarebbe stato ascritto a cause del tutto naturali.
L’ambulanza arrivò dieci minuti dopo. Purtroppo per Rosati, era troppo tardi: il suo cuore si era già fermato.