CAPITOLO 72
Ore 12:30
Nubi plumbee e gravide di pioggia si muovevano veloci sopra i tetti del quartiere di Etterbeek e si riflettevano nei vetri a specchio del Parlamento Europeo.
Eva e Fossati avevano lasciato la loro auto in un parcheggio poco distante, deserto e circondato da alberi che ondeggiavano al vento gelido proveniente da nord.
Camminavano con la testa bassa, l’uno dietro all’altra, come due condannati diretti al patibolo. Erano in un vicolo cieco, e qualunque mossa decidevano di fare venivano regolarmente anticipati.
A Haifa con il Mossad, che li aveva preceduti a casa di Zion Eliyahu, poi a Barcellona con Günther, fulminato poco prima che arrivassero, e adesso anche Jean François Defour, che muore improvvisamente. Certo, il consulente di Alberto Zorzi aveva tentato il suicidio già diversi giorni prima ed era giudicato in gravi condizioni… ma che morisse proprio il giorno del loro arrivo era l’ennesima strana coincidenza!
«Nessuno me lo toglie dalla testa», grugnì Fossati calpestando un cumulo di foglie ingiallite. «Defour è stato ammazzato. Pensaci…».
Eva non rispose e tirò dritta verso la macchina.
«Era lui che stava scrivendo il testo della direttiva. Una norma che avrebbe certamente danneggiato i proprietari della Banca Centrale! La morte di Defour è la conferma che cercavamo. Che cercavo. Adesso ne sono sicuro. Sappiamo chi dobbiamo trovare. Il mandante dell’omicidio di Zorzi è qualcuno che sarebbe stato danneggiato dall’entrata in vigore della nuova legge. Forse qualche banchiere… qualcuno di cui Schollen ha fatto il nome. Non sappiamo in che modo, ma la ragione deve essere nel lavoro di Defour. Non c’è un’altra spiegazione!».
Eva abbassò il finestrino del passeggero. «Hai intenzione di salire?». Era molto più pratica di lui: anche se avessero saputo chi cercare – e non lo sapevano – la loro situazione rimaneva di estremo pericolo.
Fossati annuì e aprì la portiera. «Capisci, abbiamo fatto un passo avanti! Sappiamo contro chi combattiamo!». Il PM era un eterno ottimista. Purtroppo per lui, però, non sapeva davvero con chi aveva a che fare.
«Intanto mi pare ti manchi ancora un nome… ma se anche ce l’avessi, cosa avresti intenzione di fare?», domandò acida Eva. «Ti ricordo che quella gente, chiunque sia, ci vuole morti. Hai intenzione di raccontare la storia di Schollen? E a chi? Sempre ammesso che quello che ci ha spiegato corrisponda alla verità».
Fossati non rispose e si mise seduto.
«Sono vent’anni che il vecchio racconta la sua storia e pensi che qualcuno gli creda?»
«Zorzi gli credeva», sentenziò acido Fossati.
«E infatti l’hanno fatto ammazzare!», replicò lei amara.
Eva inserì la marcia e Lorenzo si decise a chiudere la portiera, ma non ci riuscì. Fossati alzò lo sguardo: di fianco all’auto, in piedi sotto la pioggia, c’era una persona che teneva lo sportello.
Aveva gli occhi gonfi e i capelli spettinati. Non ne era certo, ma gli sembrava la donna che si trovava nella sala d’aspetto dell’ospedale.
«Perché cercavate mio marito?», indagò, in un francese cantilenante.
Eva rimase sgomenta.
«Chi siete?», insistette la donna.
«Indaghiamo sulla morte…».
«La polizia ha già dichiarato che Jean François si è suicidato», lo interruppe lei. «Mentono. È stato ucciso. Non si sarebbe mai tolto la vita!».
Fossati non si fece pregare: «Indaghiamo su Alberto Zorzi. Credevamo che suo marito potesse…».
La donna si voltò di scatto. Il parcheggio era deserto. Gli alberi si piegavano sotto l’effetto della pioggia e le foglie vorticavano in piccoli mulinelli.
«Non qui», sospirò, con un filo di voce. «Vediamoci questa sera. Da me. È più sicuro».
Senza che né Eva né Fossati potessero replicare, la donna sbatté la portiera e voltò loro le spalle, non prima di aver lasciato un biglietto da visita in mano al PM. Si diresse a piedi verso il padiglione A e scomparve dietro un furgone parcheggiato.