CAPITOLO 31
Copenaghen, Danimarca,
ore 19:10
Eva si tirò su il cappuccio del Loden e proseguì con passo rapido.
Era sfinita. Per come l’aveva immaginata, svegliandosi tra le lenzuola di seta nera della sua villa greca, quella giornata avrebbe dovuto essere di estremo relax. La realtà era stata molto diversa. Da quando era riuscita ad arrampicarsi sugli scogli di una piccola baia, ne aveva fatta di strada. Autostop, una telefonata a una persona fidata, jet privato e infine, all’imbrunire, si trovava a tre ore di volo e quattromila chilometri di distanza dalla sua isola.
L’aria di Copenaghen era fredda e umida. Una brezza pungente veniva dal mare e bruciava gli occhi e la fronte, l’unica parte del corpo scoperta.
Oltre al cappotto, all’aeroporto di Rodi aveva acquistato gli unici abiti invernali che era risuscita a trovare: un maglione di cachemire a collo alto, un paio di jeans e degli stivali da cowboy.
Proseguì nella semioscurità lungo la via pedonale che costeggiava il canale. Alla sua destra c’era una fila ininterrotta di tendoni bianchi di bar, di bistrot e di coffee-shop con le serrande abbassate. Il confine tra un ristorante e un altro era tracciato soltanto da vasi di siepi verdeggianti. Durante le ore di sole di solito quei locali erano affollati; adesso però, con le sedie sistemate a rovescio sui tavolini per sconfiggere l’umidità della notte, apparivano desolatamente vuoti.
L’acqua del canale sembrava immobile come una macchia d’olio e lungo il molo erano ormeggiate, una dietro l’altra, una varietà eterogenea di imbarcazioni: si passava con estrema facilità dal veliero trialbero, alla goletta, allo yacht, all’imbarcazione da diporto, alla corvetta bassa e sgangherata.
Dalla parte opposta, dietro le vetrine dei locali, facevano capolino i colori sgargianti degli edifici: giallo, azzurro, ancora giallo, azzurro e poi arancione.
Era arrivata. Individuò la familiare scritta “Nyavin 17” e voltò a destra lasciandosi il canale alle spalle. Si infilò in una viuzza stretta lastricata, e si fermò davanti alla porta a vetri di una bottega.
L’insegna diceva: “Greyswan Antiquario”.
Il campanello sopra la porta tintinnò, annunciando che qualcuno era entrato.
L’interno era caldo e l’ambiente accogliente. Nella penombra riuscì a riconoscere il marasma tipico di quel posto: vetrinette stracolme di oggetti antichi e di libri, quadri attaccati in ogni spazio vuoto del muro e accatastati lungo le pareti. Padelle e pentole di rame appese ai mobili.
Nella parte alta della stanza, sistemate su alcune mensole, c’erano ancora una serie di statue e, poco sotto, addossati alla scala in legno, due file di mobili, credenze, librerie e comò da restaurare.
Era a casa.
Erano passati sei mesi dall’ultima volta.
Nell’ambiente, il suo nome circolava da diverso tempo. Era riconosciuta da tutti come una professionista impeccabile. Una che non sporca, e se sporca pulisce.
Nessuno si era mai lamentato fin dal primo incarico, otto anni prima. Era cominciato per caso, dopo che la sua vita era cambiata improvvisamente… e le era piaciuto.
Di contratto in contratto, il suo nome d’arte si diffondeva nell’ambiente.
Ormai era diventata la migliore professionista sulla piazza. Chi doveva ingaggiarla sapeva che non era una procedura semplice: il tempo delle inserzioni sui giornali, tipiche dei film o dei libri di spionaggio, non era mai arrivato.
Vista la sua delicata professione, riteneva che la sicurezza fosse l’elemento fondamentale e trovava che il sistema messo a punto nella bottega di Copenaghen fosse il migliore: non erano gli altri a mettersi in contatto con lei. Era lei che lo faceva.
L’ultima volta era stato più difficile. Il firewall del cliente l’aveva respinta più volte ma con qualche tentativo era riuscita a violarlo e a rintracciare chi l’aveva cercata.
Ricordò quel giorno con un lieve senso di nostalgia, per averla portata per così tanto tempo lontana da casa. Il computer del piano di sopra, posizionato accanto al letto, aveva emesso un segnale sonoro. Lei si era alzata e aveva guardato l’orologio: le due in punto.
Un tentativo. Nulla.
Un secondo tentativo. Ancora nulla.
Ma sul sito non c’era niente da trovare…
Si era stropicciata gli occhi e si era messa alla tastiera.
Era una programmatrice con pochi eguali ed era stata lei in persona a scrivere il codice di quel software. Qualcuno, in passato, l’aveva definita, con disprezzo, hacker. Evidentemente non sapeva che il termine adatto a quello che faceva era cracker: Eva si introduceva nei sistemi informatici altrui e ne carpiva le informazioni.
Di sicuro, oltre che un’assassina spietata, fredda e calcolatrice, era anche una criminale informatica.
Quella notte era stato più difficile.
Aveva digitato sui tasti del computer per oltre due ore. Quando dalla finestra aveva individuato le prime luci dell’alba che rimbalzavano sui tetti umidi della città, c’era riuscita. Eva aveva trovato la sua finestra.
Il firewall del cliente fu ingannato da un software creato per l’occasione ed Eva riuscì a entrare dall’unica apertura digitale che aveva trovato.
«C’è sempre un buco, una vulnerabilità. Basta trovarla». Erano le parole di GeHot, nome d’arte con il quale era conosciuto in rete il ragazzo che le aveva insegnato tutto quello che sapeva. Era una persona incredibile, un mago. Le sue dita volavano sulla tastiera come quelle di un pianista e, nonostante avesse soltanto quindici anni, era stato il primo incarico di Eva.
Quando premette il grilletto, quella prima volta, credeva che sparare a un quindicenne l’avrebbe fatta soffrire. Poco prima si era immaginata, titubante, indugiare con la pistola tra le mani. Lui sarebbe stato lì, indifeso davanti al computer e lei gli avrebbe sparato a bruciapelo. Per cosa poi? Perché il ragazzino aveva danneggiato troppo duramente i sistemi informatici di una corporation giapponese?
Le ragioni non dovevano riguardarla. Non sapeva che sarebbe stato facile. Invece era rimasta lucida e fredda. Aveva sparato, ripulito e soprattutto, dopo, non aveva perso nemmeno un minuto di sonno.
Erano passati molti anni e molti altri clienti. Grazie ai suggerimenti del ragazzino però, aveva messo a punto un sistema per essere ingaggiata in tutta sicurezza. La notte di sette mesi prima aveva così trovato una finestra digitale che l’aveva condotta a un server di Marrakesh. Grazie a quel contatto, le era poi stato affidato l’incarico di uccidere Alberto Zorzi.
Eva fece due passi nel negozio. I tacchi dei suoi stivali strisciarono sul pavimento in cotto ma nel silenzio fu come un tuono nel deserto.
«Buonasera, cara».
Eva si illuminò.
In cima alla scala, con una vestaglia di velluto rosso, c’era un anziano dagli occhi grigi. Era immobile, probabilmente la stava osservando da un po’.
Teneva le mani in tasca e assaporava la pipa.
Per Eva fu come guardarsi allo specchio e vedere una parte del suo passato. La pelle era rugosa ma il viso sorridente e soprattutto gli occhi avevano il suo stesso sguardo.
«Sei arrivata presto!», osservò lui. «Una tazza di caffè?»
«Hai fatto quel controllo?», domandò Eva a bruciapelo. Poco prima di partire da Rodi gli aveva chiesto di fare una verifica che avrebbe potuto aiutarla a capire cosa stava succedendo.
«Sì, e in effetti ci sono novità. Ma non quelle che ti aspettavi», borbottò l’uomo.