CAPITOLO 3
Roma, 2 giorni prima
L’uomo infilò l’ago nella carne. Ignorò il dolore e iniettò deciso il liquido denso e nero. Una fitta insopportabile alla schiena lo costrinse a fermarsi. Di nuovo.
Fissava lo specchio con gli occhi gonfi e sudava copiosamente. Le braccia pesanti e intorpidite gli sembravano rivestite di piombo. Sentiva il corpo percosso da spasmi continui, con una frequenza che cresceva di minuto in minuto.
Era in una piccola stanza da bagno, maleodorante e con il soffitto annerito dalla fuliggine. Aveva le spalle ricurve e la testa china. Si reggeva in precario equilibrio stando appoggiato a torso nudo alla parete umida. Il lavabo, di fronte a lui, traboccava di acqua grigiastra, putrida e sporca di sangue. La mano destra, che esitava sotto la spalla, tremava.
I sintomi erano chiari: stricnina. Era stato avvelenato. Non si sbagliava. Li aveva riconosciuti perché lui stesso, nella sua “vecchia vita”, ne aveva fatto uso.
Si era iniettato del diazepam per rallentare gli effetti del veleno e guadagnare un po’ di tempo prezioso. Forse sarebbe sopravvissuto qualche ora in più, ma la morte sarebbe arrivata puntuale e inesorabile. Non aveva scampo, qualunque cosa avesse fatto.
Si sciacquò la fronte con il braccio libero e si costrinse a completare il lavoro che aveva iniziato.
Piantò ancora l’ago sotto pelle e premette lo stantuffo.
Una nuova fitta, più acuta e dolorosa della precedente.
Scosse la testa ripetutamente, allungando il collo, e riprovò.
Un rivolo di sangue sgorgò dalla ferita e cominciò a scorrere lungo il torace glabro e umido. L’uomo osservò la scena con distacco: la goccia, di un rosso tendente al nero, si tuffò nel lavandino e scomparve sotto il pelo dell’acqua grigia.
Avvicinò la siringa, di nuovo. Era piena di una sostanza molto più densa dell’inchiostro.
Spinse lo stantuffo, lentamente. Si iniettò una piccola quantità di liquido scuro, attese qualche secondo e poi fece un altro buco. E ancora un altro.
L’operazione che stava eseguendo era vietata dalla Torah, ma a lui non importava. Lo faceva per il suo Paese e, soprattutto, lo faceva perché non gli avevano lasciato scelta…
Si passò il palmo della mano sulla fronte e si guardò dritto negli occhi attraverso lo specchio.
Un flashback di ciò che era accaduto lo fece sussultare di rabbia: era in piedi, camminava lentamente verso il cadavere di Zorzi. Le voci, le urla, gli elicotteri, l’ambulanza. Ma doveva ignorarle, era la sua missione.
Si era accostato all’autovettura, ferma, con il motore acceso e la portiera ancora aperta. Era riuscito a individuare senza troppe difficoltà ciò che cercava. Era stato addirittura più semplice di come aveva previsto. Aveva preso la piccola agenda di pelle rossa e, senza guardarsi intorno, l’aveva infilata nella tasca della giacca. Tutto finito. Troppo facile. Nessuno l’aveva visto.
D’un tratto tornò in bagno. La muffa sulle pareti e l’odore d’urina lo riportarono al presente. La sua immagine era sfocata nello specchio, gli occhi grigi erano scavati e le vene del cranio pulsavano.
Osservò la busta di plastica sul pavimento e una piccola provetta di vetro aperta. Entrambi venivano dall’Israeli Institute for Biological Research, ma nessun logo e nessuna scritta ne attestavano la provenienza. Quando era in servizio, all’IIBR c’era stato più volte: una fortezza in cemento armato a sud di Rishon LeZion, dove Israele sviluppa le armi biologiche.
Si scrollò di dosso il sudore e chiuse gli occhi per un secondo. Quel pacchetto era l’unica cosa che lo teneva attaccato alla precedente vita. L’aveva tenuto da parte, ben custodito e ben nascosto. Non pensava certo che avrebbe dovuto usarlo su se stesso…
Ma non aveva altra scelta, sarebbe morto comunque. Doveva finire ciò che aveva iniziato.
Calcolò che con ogni probabilità avrebbero ritrovato il suo cadavere già l’indomani, al più tardi due giorni dopo, il lunedì. Il pacchetto era già in viaggio: aveva tutto il tempo di arrivare indisturbato a destinazione.
Bene, aveva pensato a tutto. Sorrise tra sé nel ricordare il viso della donna che era stata la causa di tutto. Non ne conosceva il vero nome, ma gli occhi di un azzurro intenso, i capelli neri e una ciocca argentata sulla tempia erano stampati nella sua mente, indelebili come una fotografia.
Tornò a guardare il torace sanguinante. Avvicinò la siringa e trattenne il respiro.
Fece un altro buco e un altro ancora, cercando di completare l’ultima parte del tatuaggio.