CAPITOLO 33
Marrakesh, Marocco,
7 mesi prima
A Marrakesh c’è un detto: tutto si può comprare, vendere e per tutto si deve contrattare. Eva aveva aggiunto: «Anche per la vita di un uomo».
Era arrivata in Marocco seguendo il solito iter: chi voleva contattarla doveva semplicemente accedere a un sito Internet di Copenaghen. Si trattava di un sito particolare, indicizzato dai motori di ricerca ma conosciuto soltanto dagli addetti ai lavori. Era fortemente improbabile arrivarci per caso. Chi accedeva a greyswan.eu sapeva che, se lei avesse reputato il lavoro interessante, poi sarebbe stato ricontattato.
Sette mesi prima dell’omicidio di Zorzi, nel suo monitor era comparsa una stanza da letto, vuota. Forse era una camera d’albergo.
Un raggio di sole obliquo disegnava un poligono sul copriletto di pizzo ricamato e da una finestra le pareva si vedesse un mercato.
Frugò tra i documenti informatici di quel computer senza sapere che, qualche tempo dopo, avrebbe fatto la stessa cosa con i file di un magistrato italiano che non conosceva.
Attraverso un veloce esame ai log del sistema, risalì al collegamento Internet e al nodo web utilizzato: Riad Les Jardins, un hotel di Marrakesh.
Due giorni dopo, all’imbrunire, Eva camminava svelta tra un fitto dedalo di viuzze assolate, asfissianti, colorate, rumorose e… odorose.
Indossava dei pantaloni alla zuava, un largo camicione e un paio di vistosi occhiali da surf. A fatica si faceva largo tra la moltitudine di turisti, negozianti e indigeni che affollavano i vicoli a ridosso delle mura.
La via pedonale era molto stretta e traboccava di boutique colorate e di venditori che esponevano la loro merce appesa ai muri, appoggiata su banconi di legno o piegata per terra.
Camminò accanto a un falegname che cesellava, con l’ausilio di mani e piedi nudi, listelli di legno di cedro trasformandoli in preziosi amuleti o in pezzi di qualche scacchiera. Dopo di lui c’era un anziano che conciava la pelle e l’appendeva in strada per farla asciugare.
Davanti ai suoi occhi, come fossero immagini viste attraverso lo scompartimento di un treno, passò un po’ di tutto: venditori di babbucce, di borse, di oggetti in pelle, di cappelli, di pompon di lana, di spezie colorate, di souvenir di ogni genere. C’era persino una bancarella che esponeva in bella vista denti umani. Quella strada angusta e brulicante le sembrava un immenso formicaio in attività.
Era vero, a Marrakesh tutto si può comprare e vendere ed Eva lo sperimentò sulla sua pelle.
«Non ti basterebbero i soldi di un anno!», aveva detto, rimbrottando un ragazzino che la seguiva come un cane.
Eva lo aveva squadrato: gli mancavano i due incisivi, era riccio e mulatto (o più probabilmente sporco) e, sorridendo, le aveva offerto un pugno di monete arrugginite per i suoi occhiali.
Lei aveva sorriso a sua volta. Invece di mandarlo via si era tolta le lenti polarizzate da davanti agli occhi e le aveva sistemate sul naso del ragazzino. Un altro sorriso sdentato, molto più felice del precedente. Poi lui aveva insistito per darle le monete ed era scomparso saltellando tra le bancarelle della piazza.
Era stata felice. Per un secondo si era sentita una persona buona, quasi che con quel gesto volesse espiare qualcuna delle sue colpe. Sapeva di averne molte, visto che di mestiere ammazzava la gente. Dopotutto, però, quello era l’unico modo in cui sapeva vivere. Far felice qualcuno, a volte, la faceva sentire bene.
Raggiunta la piazza Jemaa El Fna si trovò catapultata in un’atmosfera fuori dal tempo. Immaginò, secoli prima, le carovane che attraversavano il Marocco e si fermavano in quella piazza, rimasta esattamente come allora. Gli odori di pesce fritto, di polpette, di spiedini, di cous cous e di carne alla griglia dovevano essere esattamente gli stessi.
Eva si fece largo tra la moltitudine umana che riempiva la piazza. Lambì un cantastorie che agitava le mani e urlava a squarciagola davanti a una platea di uomini e ragazzini. Per un breve tratto fu accompagnata da un omino col turbante che portava al guinzaglio una bertuccia. Mentre camminava, cercò di fare mente locale su quanto sapeva di quel lavoro.
Nel computer, come spesso succedeva, aveva trovato soltanto file operativi: fotografie del bersaglio e piani di viaggio. Nessuna informazione sul suo futuro datore di lavoro.
L’affare però l’aveva interessata. Sembrava decisamente grosso, molto grosso. Era sicuramente pericoloso e quindi molto stimolante. Proprio ciò che lei cercava.
Eva non faceva quel lavoro solo per i soldi: dopo otto anni di professione, ne aveva molti di più di quanti ne potesse spendere. Lo faceva per la sensazione che il lavoro le dava: unica, incomparabile e insostituibile. Solo togliere la vita a un altro essere umano la faceva sentire così viva.
Ci aveva pensato tutta la notte, poi aveva deciso che valeva la pena ascoltare la proposta con le sue orecchie. Sempre attraverso la finestra digitale aveva quindi contattato l’utente che gestiva il computer.
Era abituata a non fare troppe domande perché sapeva che i dettagli sulla vittima distraggono dall’obiettivo. La umanizzano e rendono più difficile una cosa molto facile.
L’uomo aveva precisato che tutto sarebbe filato liscio come l’olio: l’Organizzazione – lui l’aveva chiamata così – si sarebbe occupata di fornirle i documenti per entrare in Germania e avrebbe creato la sua copertura.
Se avesse accettato il lavoro, Eva sarebbe diventata una musicista single che suonava in una banda. Avrebbe avuto accesso al palazzo del Municipio, avrebbe potuto fare il suo lavoro e poi sarebbe uscita indisturbata. Il contatto le aveva anche assicurato che l’Organizzazione avrebbe pensato a crearle una vita fittizia nei database dei servizi di sicurezza. Avrebbero inventato un curriculum, una famiglia e anche i necessari profili sui social network. Avrebbero costruito ricordi, esperienze, vacanze e fotografie. Le sarebbe stato messo a disposizione un appartamento di fronte all’hotel nel quale avrebbe alloggiato il bersaglio.
Eva attraversò la piazza e, finalmente, oltre una fila di bancarelle, individuò l’insegna.
L’interno dell’hotel era, se possibile, ancora più nauseante di piazza Jemaa El Fna. L’umidità dei condizionatori mista a un forte odore d’incenso le diedero la vaga impressione di trovarsi in un bordello.
Un uomo con gli occhiali le sorrise da dietro il bancone, ma non fece in tempo a dire nulla che un altro la chiamò.
Era alto e grasso, grondante di sudore, con capelli biondi e vistosi occhiali da sole. Indossava una giacca di lino chiara e dei pantaloni macchiati e stropicciati.
«Piacere, sono Günther». Le tese la mano sudata.
Eva gli sorrise ma evitò di stringerla.
«C’è un posto dove possiamo parlare?», domandò lei.
Günther annuì. «Mi segua».
Percorsero una scala stretta e annerita per la fuliggine. Ebbe l’impressione di salire verso la soffitta dei segreti.
L’uomo spalancò una porta e si trovarono sulla terrazza del Riad Les Jardins. Da lì si vedeva il movimento indistinto delle centinaia di persone che popolavano la piazza.
Eva si affacciò al parapetto in ferro battuto.
Il sole stava tramontando e il cielo era striato di rosa e di porpora. Dalla piazza un numero indefinito di focolai innalzava verso il cielo una serie di colonnine di fumo bianco. Un vociare confuso riempiva l’aria e faceva da sottofondo.
«Se è venuta significa che il lavoro le interessa!», esordì Günther, che la raggiunse appoggiandosi al parapetto.
Eva strizzò gli occhi. Cercò di seguire il suonatore di flauto che passeggiava in mezzo a un gruppetto di persone. «Per adesso sono disposta ad ascoltare».
«Giusto!». Günther annuì. «Il nostro bersaglio lo conosce di sicuro. Il compenso, naturalmente, è proporzionato al bersaglio». L’uomo porse a Eva un foglietto piegato in quattro parti.
La donna indugiò per un secondo. Per lei il compenso non era la parte fondamentale. Nonostante tutto, prese il foglio, lo lesse e non disse nulla.
«Sul computer le abbiamo lasciato tutti i dati che le serviranno per valutare la situazione. Conosce le modalità con le quali intendiamo farla entrare. Ovviamente, queste sono soltanto proposte. Se lo riterrà necessario potrà modificarle come meglio crede. Però…».
Eva si voltò verso Günther. La faccia bianca e rotonda era impassibile. «Però?»
«Il lavoro non finisce con l’obiettivo principale!».
«Cosa intende?»
«C’è un’agenda rossa. Il nostro obiettivo la porta sempre con sé. Ci serve».
«Sapete che non mi avvicino mai ai miei bersagli!», rispose stizzita Eva, che si allontanò dal parapetto e fece per andarsene.
L’aveva fatto solo una volta. Aveva sparato a bruciapelo, guardando negli occhi la vittima. Solo la prima volta, con il ragazzino. Con GeHot. Da allora si era ripromessa che non avrebbe più guardato negli occhi il suo bersaglio. La vittima non doveva sapere che stava per morire. Dopotutto, la morte arriva silenziosa.
«Aspetti…». Günther le prese un braccio, per cercare di trattenerla. «Aspetti!».
Eva lo fulminò con lo sguardo. L’aveva toccata. Da quella circostanza avrebbe dovuto capire che restare era un errore.
«Avrà un aiuto!», insistette Günther.
«Io lavoro da sola!».
«È un israeliano, e ci serve che si trovi sulla scena del delitto. Sarà lui a prendere l’agenda. E poi lei, a sua volta, gliela ruberà».
Eva si avviò verso la porta. Oltre l’edificio i tetti della città disegnavano lunghe ombre del tramonto sulla terrazza.
«L’israeliano è il suo secondo bersaglio».
Eva si paralizzò: due al prezzo di uno. Dopo una breve esitazione si voltò e guardò Günther dritto negli occhi.
«Aspetti a decidere. Aspetti di conoscerlo. Presto la faremo contattare da lui. Sono certo che quando saprà di più… come dire, troverà anche questo secondo bersaglio stimolante».
E infatti fu così. Eva accettò… e commise un errore che le sarebbe quasi costato la vita.
Alcuni mesi dopo si ritrovava esattamente dove tutto era cominciato: a Copenaghen, in una mansarda, a osservare attraverso una webcam un ufficio vuoto di Roma.