CAPITOLO 63
Barcellona, Spagna,
ore 23:00
Sembrava che a ogni passo il mondo si sgretolasse dietro di loro.
Eva era sotto la doccia con gli occhi chiusi e i pugni serrati. L’acqua bollente le scivolava addosso da diversi minuti, le scorreva sulle spalle, le accarezzava le curve, si infilava sinuosa tra le natiche.
Dopo essere fuggiti dalla casa di Günther avevano raggiunto in taxi un piccolo hotel che prendeva il nome della piazza su cui era affacciato: Plaça de la Sagrada Família.
L’austriaco era stato ammazzato. Lui era l’unico collegamento con i mandanti dell’omicidio di Zorzi. Eliminato lui non esisteva nessun altro a cui chiedere. O almeno, nessuno che lei fosse in grado di rintracciare.
Ma la conseguenza ulteriore della morte del grassone era un’altra: chi lo aveva ucciso sapeva che loro stavano arrivando.
Eva aprì gli occhi. Il box doccia era completamente appannato. Al di là c’era la porta che dava sulla camera da letto. Erano stati costretti a prenderne una sola, fingendo di essere una coppietta, e aveva dovuto pagare ancora una volta in contanti per evitare di lasciare tracce.
Si domandò in che modo l’Organizzazione l’avesse preceduta. La stava controllando, era evidente. Ma come? Cercò di riflettere: si erano sempre mossi con auto a noleggio, pagate in contanti, e con documenti falsi sempre diversi. L’unica costante era stata l’aereo. Doveva essere così: l’avevano rintracciata attraverso il Falcon. Lei lo aveva noleggiato tre mesi prima con tanto di equipaggio. Si chiese se poteva veramente fidarsi della società che le aveva fornito il servizio e decise di no.
L’Organizzazione doveva aver saputo che stavano andando da Günther mentre erano in volo. Per quanto fossero potenti, non potevano certo abbatterli con un cacciabombardiere. Era rimasta loro solo un’opzione per evitare di essere scoperti: eliminare Günther prima che lei riuscisse a parlarci.
Eva appoggiò le braccia sui bordi della doccia e divaricò le gambe. L’acqua cominciò a scivolarle lungo le ascelle e a scenderle sulle cosce.
C’era un altro fattore da considerare: la morte di Günther non risolveva i suoi problemi. Tutt’altro. L’Organizzazione aveva solo guadagnato tempo, in attesa di risolvere il problema più seccante: lei!
Prese due decisioni, la prima estremamente pratica: non sarebbe più salita sul Falcon.
La seconda riguardava Fossati.
Il magistrato aveva smesso di tormentarsi. Ormai era invischiato in una vicenda che rischiava di compromettere la sua intera esistenza. Lui, che da sempre aveva vissuto rispettando la legge, si trovava a camminare tra cadaveri, sparatorie, inseguimenti e misteri.
Dovunque passasse, qualcuno moriva.
L’ultimo non lo aveva neppure conosciuto, ma il cadavere bruciacchiato e l’odore nauseabondo erano impressi in modo indelebile nella sua mente. Forse, anche lo stesso padre Claudio aveva pagato con la vita l’incontro con lui.
Aveva deciso. Quella storia doveva finire quella sera stessa! La Glock di Eva era sul letto, accanto ai fogli stampati a casa di Zion Eliyahu, quelli appartenuti ad Alberto Zorzi.
Prima o poi la ragazza sarebbe uscita dalla doccia: le avrebbe puntato la pistola contro e l’avrebbe costretta a parlare una volta per tutte.
Forse ciò che aveva da raccontare gli avrebbe permesso di fare più luce su tutta la questione. Dopotutto lo aveva detto anche Eva: «A volte conoscere la verità aiuta a salvare la vita».
L’acqua della doccia scorreva ininterrottamente da dieci minuti, un rumore rassicurante che gli permetteva di riflettere e di prepararsi a quello che avrebbe fatto entro pochi minuti.
Tra una riflessione e l’altra, il ricordo del suo sogno, quello avuto sull’aereo nel pomeriggio in cui aveva visto Eva completamente nuda, continuava a tormentarlo. Non riusciva a concentrarsi.
Fossati scosse il capo, prese la pistola e se la infilò nei pantaloni. Afferrò i fogli di Zorzi e si avviò alla finestra.
Da lì poteva osservare con la coda dell’occhio la porta del bagno socchiusa. Fuori, oltre la piazza, intravedeva le guglie illuminate della basilica.
«È in costruzione dal 1882», aveva proclamato il proprietario dell’hotel al loro arrivo, quasi fosse l’unico argomento di discussione che poteva avere con i turisti. Poi, scherzando, aveva continuato: «Sembra che forse la finiranno nel 2026!».
“Temo che mi ammazzeranno molto prima”, aveva pensato Fossati, ancora traumatizzato per la vista del cadavere bruciacchiato di Günther.
Avvicinò i fogli alla finestra.
Nomi, nomi, nomi. Qualche frase. Poesie? Sfoghi?
Guardò i documenti meglio di come aveva fatto quella mattina. Era un’interminabile lista di persone: cominciò a leggerla, riga dopo riga. C’erano onorevoli, senatori, colonnelli, generali, avvocati, architetti. Era un elenco di dieci pagine scritto con un preciso ordine.
Si fermò due volte: quando incontrò il nome di Cesare Baldacci e poi quello di Mary Capraro. Li conosceva entrambi, uno di persona, l’altra di nome.
Andò avanti e si interruppe una terza volta quando lesse il nome di Carlo Maria Rosati. Arrivò fino alla zeta senza trovare nessun altro a lui noto. Dopo l’ultimo nome, quello del senatore Michele Zucco, c’era una serie di scarabocchi, alcuni zero e uno ripetuti più volte e una scritta a margine, a cui non aveva dato peso in precedenza. Più sotto, nel mezzo della pagina, c’era quella che sembrava una poesia: “Di chi? Di chi? Di chi? Ci sono proprio tutti! Di chi mi posso fidare?”.
L’aveva già letta e non gli aveva comunicato assolutamente nulla. Si concentrò sulla scritta più piccola, quella sul bordo del foglio. Era diversa dalle altre, vergata quasi in obliquo e con una calligrafia molto meno curata. Sembrava un appunto disordinato, forse preso velocemente per telefono.
Prof. Schollen, Füssen, mercoledì 12, ore 23:30
L’acqua della doccia smise di scorrere improvvisamente.
Fossati portò la mano alla cintura e toccò il calcio della piccola rivoltella.
Silenzio.
Poi la porta della doccia si aprì.
«Cosa fai?», domandò Eva vedendolo rigido di fianco alla finestra.
Indossava solo un asciugamano bianco. Aveva i capelli sciolti e i piedi scalzi e gocciolava sulla moquette.
«Veram…». Il PM non fece in tempo a finire la frase che tutti i suoi propositi scomparvero in un lampo.
Eva slacciò l’asciugamano, lentamente, e lo fece scorrere sui fianchi. Rimase nuda, immobile davanti a Fossati.
Non era come nel sogno, lì non c’era nessuna luce alle spalle e non si vedeva solo la silhouette. Eppure era esattamente come l’aveva immaginata. Bellissima, con le forme sinuose, pronunciate, rotonde; il seno piccolo e perfetto, la pelle bianchissima.
Eva si avvicinò a lui, a piccoli passi, quasi al ritmo di una musica immaginaria.
«Hai intenzione di spararmi?», gli domandò con un sorriso sardonico sulle labbra. Non c’era rancore nel suo tono di voce ma solo tranquillità.
Poi gli fu vicinissima. Era poco più bassa di lui. Appoggiò i suoi seni duri alla camicia di Fossati, si alzò in punta di piedi e avvicinò le sue labbra a quelle del pubblico ministero.
Lui tentò di opporsi per un istante. Poi, senza neppure rendersene conto, respirò a fondo e contraccambiò il bacio.