CAPITOLO 52
Altopiano del Renon, Bolzano,
ore 12:55
«Quanto manca? Dovremmo quasi esserci!», borbottò l’autista, un omone con i lineamenti squadrati e gli occhi grigi.
«Non molto. Due o tre curve», lo rassicurò il collega, con un ghigno stampato sul viso. «Ormai siamo arrivati. Non può andare lontano».
L’Audi Q7 affrontò l’ultimo tornante e, oltre una riva innevata, si stagliò la sagoma del convento di Renon.
Sessanta secondi dopo la scomparsa del segnale del cellulare di Fossati – che li aveva guidati fino a quel punto – il potente fuoristrada inforcò l’ingresso.
Il piazzale era coperto da un sottile strato di neve. C’era il solco lasciato dalla motocicletta del pubblico ministero che portava dietro all’edificio e altre due tracce parallele, quelle di un’auto.
Prima di scendere, i quattro uomini avevano indossato dei passamontagna neri che lasciavano soltanto due buchi per gli occhi e due per le narici. Avevano stretto i giubbetti antiproiettili e tolto le sicure alle pistole mitragliatrici HK MP7.
L’Audi nera si fermò proprio davanti alla scaletta scoscesa che separava il piano stradale dal porticato. Le quattro portiere si aprirono e gli occupanti, tutti vestiti allo stesso modo, scesero contemporaneamente.
«Voi due di là!», ingiunse l’autista da sotto il cappuccio. «Seguite le tracce della moto. Noi entriamo!».
Due figure muscolose raggiunsero a grandi falcate il confine settentrionale dell’edificio e scomparvero dietro il muro di cinta. Gli altri salirono i gradini sporchi di neve e sbucarono nel lungo porticato: il pavimento era in cemento grezzo, forse rifatto di fresco, e sul muro del convento si notavano alcuni affreschi malandati coperti da un cavalletto per restauri. Si avviarono di corsa, girando attorno all’edificio, e si trovarono di fronte a un portone aperto. Quindi entrarono.
Erano in una grande anticamera. Alle pareti c’erano icone religiose e davanti a loro una scalinata scoscesa che saliva verso il secondo piano; alla loro sinistra, il refettorio.
Uno dei due uomini salì le scale. Tenne la pistola mitragliatrice puntata davanti a sé e avanzò nella penombra. L’altro si fece largo tra i tavoli massicci della mensa, ben illuminata dalla grande vetrata affacciata sulla valle.
Non c’era nessuno.
Padre Claudio era assorto nei suoi pensieri, inginocchiato nel cortile.
Come all’esterno, anche tutto il perimetro interno era circondato da un lungo porticato che cingeva uno splendido chiostro rettangolare. Al centro del giardino erano stati piantati alcuni alberi da frutta, e sull’angolo che durante l’anno era il più assolato il religioso aveva seminato alcuni ortaggi.
L’anziano era accovacciato, con i piedi e le gambe sprofondate nella neve fresca. Stava liberando, con l’aiuto di una paletta, alcune piantine dal sottile strato di ghiaccio accumulatosi nella notte.
Un rumore attirò la sua attenzione. Si appoggiò al muretto e a fatica si alzò in piedi.
In fondo, dalla parte opposta del chiostro, c’era uno strano scalpiccio.
«Dov’è Fossati?», sibilò un cappuccio nero.
Padre Claudio rimase interdetto, in piedi, immobile come una statua di sale.
«Dov’è?», ripeté la voce.
Il religioso si voltò, forse per indicare la scala dietro di lui o forse per afferrare uno degli utensili che erano appoggiati al muretto.
Da dieci metri, probabilmente, il cappuccio nero non riuscì a capire le intenzioni del prete. In ogni caso non gli interessavano. Premette il grilletto.
Una scarica di mitraglietta echeggiò nell’aria rarefatta. Padre Claudio mantenne la posizione eretta, come un giocatore di basket lanciato in sospensione a canestro. Sembrava che il suo corpo non volesse cadere.
Poi, con un movimento simile a quello di un panno lanciato per terra, si accartocciò su se stesso.
Il sangue che sgorgava da sotto il saio disegnava figure astratte sulla neve. Il cielo, sopra i suoi occhi, era grigio. L’ultima cosa che vide fu una goccia di neve sciolta che cadeva dal cornicione.
«Questa è la motocicletta di Fossati!», osservò uno dei militari rimasto fuori dal convento. Si era tolto un guanto e con la mano nuda accarezzava la carena nera della MV Agusta. «Il motore è freddo. È qui da diverse ore».
Nella parte nord, il muro di cinta era segnato da macchie scure e coperto di muschio. La traccia della motocicletta nella neve si fermava proprio lì; accanto c’erano i segni di un’automobile, ma il mezzo non c’era. «Sembra sia andata di là!». L’altra figura scura indicò una stradina stretta che si inerpicava in mezzo al bosco.
«Ci sono alcune impronte. Sembrano di due persone», dedusse osservando la neve.
Improvvisamente si udì un’unica scarica di mitra. Isolata.
«Entriamo!».
I due si mossero velocemente tenendo le HK MP7 alte e pronte a far fuoco.
Sapevano che non potevano più esitare, il tempo stava scadendo. Gli incidenti o le morti “casuali”, come quella di Lupatelli, non erano più un’opzione praticabile. Avevano l’ordine di sparare a vista e di eliminare tutti quelli che sapevano.
Attraversarono nuovamente il cortile, si arrampicarono sulla scala, percorsero il porticato esterno ed entrarono nel convento.
«Deve essere qui da qualche parte!», gridarono, quando furono nei pressi del mercenario che aveva aperto il fuoco contro padre Claudio.
«È morto!», comunicò l’altro, che nel frattempo si era piegato accanto al cadavere.
«Non ha detto nulla?».
Il collega scosse il capo.
Quella squadra sapeva tutto dell’obiettivo. Era stata informata per tempo e ogni informazione sul pubblico ministero era stata vagliata. Quando, triangolando il cellulare di Fossati, l’avevano visto dirigersi a nord, verso Bolzano, avevano capito dove si sarebbe rifugiato.
Una scelta scontata, per fortuna loro.
«In ogni caso, se sapeva qualcosa, adesso non potrà più raccontarlo a nessuno».
Appoggiò la mano sulla fronte del religioso e gli chiuse gli occhi che fino a un secondo prima erano sbarrati e rivolti al cielo.
«Ho trovato il cellulare!», urlò l’ultimo dei quattro, quello che era salito al piano di sopra.
Stava davanti a loro, con la pistola nella fondina, il cellulare di Fossati in una mano e la SIM nell’altra.
«Ci ha fottuti!».