CAPITOLO 40
Roma, ore 23:10
Fossati aveva girato a vuoto per l’intera serata.
Aveva provato a parlare con tutti quelli che conosceva e che gli potessero suggerire una strategia.
Aveva contattato i numeri più importanti che aveva in rubrica, ma non aveva concluso nulla.
«Ciao, sono Lorenzo». Fossati era stato felice. Finalmente una voce amica. «Stella, scusa l’ora, sai nulla di quello che è accaduto oggi?»
«Lorenzo, non ci vediamo per mesi e poi due volte in un giorno… A cosa ti riferisci? Al cadavere di questa mattina?»
«Esattamente… la storia si è un po’ complicata… per usare un eufemismo», aveva risposto lui. «Lascia che ti racconti…».
La conversazione era durata meno di dieci minuti. Stella era stata carina, ma aveva risposto di no a quasi tutte le domane che il PM le aveva fatto. Non sapeva nulla. Quella mattina, dopo il sopralluogo a Castel Sant’Angelo, era tornata all’Ispettorato e aveva steso una relazione su quanto aveva visto. Non sapeva nient’altro…
Quali altre opzioni aveva? Poteva tornarsene a casa, come gli suggeriva l’istinto? No. Aveva deciso di ignorare quel consiglio non richiesto.
Alla fine, poco dopo le undici di sera, si era fermato proprio sotto il viale alberato di via Salvini, non lontano dal suo appartamento.
Fossati spense il motore ma non scese dalla moto. Intorno a lui non c’era anima viva, solo macchine parcheggiate da entrambi i lati della strada. Sentì abbaiare un cane in lontananza.
Osservò le chiavi dell’appartamento alla luce dei lampioni e si domandò se in casa avrebbe trovato un killer spietato pronto a freddarlo. Sarebbe morto così, solo come un cane. Senza aver trovato la donna giusta, senza aver lasciato un segno per i posteri. Senza un erede.
Estrasse il cellulare, tolse il guanto da motociclista e toccò lo schermo colorato.
Mentre attendeva che una cella della rete mobile rintracciasse il terminale del direttore dell’AISE, le parole di Baldacci gli rimbalzarono nella testa: «Si prenda qualche giorno di vacanza e cerchi di dimenticare il prima possibile». Le aveva pronunciate nel pomeriggio, prima che tutto andasse a rotoli!
Il cellulare era libero.
Uno squillo. Due squilli. Cinque squilli. Poi cadde la linea. Fossati teneva il telefono stretto tra le dita. Se non avesse saputo che era impossibile avrebbe detto che gli tremava la mano. Ma era solo l’ansia che si autoalimentava. Si costrinse a restare calmo. Una bella doccia. Una dormita e l’indomani avrebbe ragionato con maggiore lucidità.
In fondo che elementi aveva per dire che lui era in pericolo? Lui era l’amico dei politici, aveva sempre fatto la cosa giusta, era un magistrato impeccabile. In poche parole, non aveva nemici. Non poteva avere nemici.
Prima di scendere dalla moto, decise di riprovare a chiamare Baldacci. Forse non aveva fatto in tempo a rispondere. Ennesimo buco nell’acqua. Il telefono adesso era staccato.
«Si prenda qualche giorno di vacanza e cerchi di dimenticare il prima possibile».
Era un modo velato per dirgli che doveva smetterla di fare domande? E Lupatelli, Pina e la Cissé, che domande avevano fatto?
Fossati scese dalla moto, intontito.
E la vide.
Non era la macchina del Vittoriano, quella ferma con le quattro frecce. Molto peggio. Fossati sentì che il mondo stava per cadergli addosso. Lo sapeva bene. Riconosceva la sensazione. Cercò di osservarla meglio: era l’automobile che aveva già visto ferma in via del Gonfalone. Quella con a bordo il sosia di padre Claudio.
I vetri erano oscurati e non poteva vedere chi era alla guida. Ma l’auto era la stessa, ne era certo. Un’Audi di grossa cilindrata.
Stava ferma allo stop della piccola via Restori, a cinquanta metri da lui.
No, non erano coincidenze.
Una scarica di adrenalina lo fece sussultare. Fossati risalì in moto e accese il motore. Partì mentre l’Audi accelerava verso di lui.