CAPITOLO 77

 

 

 

 

 

 

 

Bruxelles, Belgio,

ore 20:15

 

L’elicottero a cinque posti Robinson R66 girava in tondo come un avvoltoio.

«Squadra rossa dentro!», tuonò una voce nelle cuffie degli uomini della cabina. Proveniva dall’altro gruppo, quello già nel palazzo.

L’equipaggio dell’R66, oltre al pilota – un quarantenne congedato con disonore dalla Royal Air Force – era composto da tre paramilitari ben addestrati e da un ex ufficiale dell’esercito tedesco. Erano equipaggiati con visori all’infrarosso sistemati sopra i caschetti Pro-Tech, mitragliette HK MP7, jacket tattici e giubbotti antiproiettile. Sotto le ginocchiere e le gomitiere indossavano tute mimetiche aderenti.

«Colpo d’arma da fuoco», sibilò alla radio una voce proveniente dalla squadra rossa. «Uomo a terra!».

L’ufficiale che occupava il sedile accanto al pilota scrutò nel buio sotto di lui. La strada, fatta eccezione per le poche auto che procedevano verso est, era pressoché deserta. Dall’elicottero, pur non avendo una visuale ottimale, riusciva a vedere il furgoncino nero parcheggiato al centro della carreggiata.

«Rispondete al fuoco!», ingiunse. «Non fateveli scappare questa volta!».

Mentre l’elicottero volteggiava sopra il tetto del palazzo su Avenue Molière, il pilota cercava di individuare uno spiazzo abbastanza ampio da consentire l’atterraggio dell’R66, in caso di necessità.

La Squadra Bianca, quella sul velivolo, aveva l’ordine di intervenire soltanto se la Squadra Rossa avesse avuto problemi. Vista la comunicazione via radio, era necessario tenersi pronti…

 

Il proiettile sparato da Eva aveva colpito l’aggressore al collo. Il sangue schizzava copioso come da una bottiglia di Dom Pérignon appena stappata.

Il cane, in piedi e immobile, abbaiava e ringhiava in direzione dell’ingresso. Il portoncino blindato era rovesciato sul pavimento.

L’uomo ferito si inginocchiò e si riparò dietro una lampada. La mitraglietta gli era caduta vicino al divano. Portò la mano al collo e cercò di tamponare la ferita come meglio poteva.

Nel vano scala, in tutto, c’erano ancora tre mercenari.

Il più vicino al ferito, che si era riparato dietro lo stipite destro della porta, fece cadere l’ariete in metallo con il quale si erano aperti il varco. Si sporse e cercò di allungare la mano verso compagno.

Un nuovo sparo, proveniente dal soggiorno.

Il militare scattò all’indietro come una molla, tenendo la mitraglietta puntata verso l’alto.

Con un balzo, l’uomo accanto a lui superò il corpo del ferito – che nel frattempo si stava trascinando al riparo dai proiettili di Eva – si posizionò sul lato sinistro e ne approfittò per dare uno sguardo all’interno.

Come si erano aspettati, c’erano in tutto tre persone, riparate dietro un divano. Il locale era ampio, c’era una apertura poco distante da lui, che dava sulla cucina, e una scala che saliva dalla parte opposta, vicino alle sue prede.

Il cane continuava ad abbaiare ma sembrava incollato al pavimento. Non si era mosso di un centimetro.

Il militare imbracciò la Heckler & Koch e con una sola mano sparò una scarica di mitra alla cieca. Alcuni calcinacci saltarono via dal muro.

Ancora un colpo di rivoltella da dietro il divano. Vicinissimo a lui.

L’uomo scattò indietro e in quel momento la sentì.

 

La piccola Ann Marie era paralizzata sul suo triciclo.

Era tra la cucina e il soggiorno, più vicina agli aggressori che a Sophie, Eva e Fossati.

Gli occhi erano lucidi e sbarrati. Teneva lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso, senza capire cosa stesse succedendo.

La madre fece per andarle incontro, ma Fossati la trattenne per un braccio.

La bimba non si muoveva.

«Vieni. Ann Marie. Vieni…», la supplicò Sophie, cercando di divincolarsi dalla presa del PM.

Ancora nulla. Era immobile.

Il San Bernardo stava ancora abbaiando e a ogni sparo intensificava i suoi guaiti.

«C’è un’altra uscita?», indagò Eva, sottovoce.

Erano tutti e tre accovacciati, una accanto all’altro.

Una nuova scarica di mitraglietta. Questa volta più lunga della precedente. Alcuni vetri dietro di loro andarono in frantumi.

Ann Marie non si spostò di un millimetro.

Sophie fece per muoversi di nuovo in direzione della figlia ma questa volta fu Eva a trattenerla.

«Mi lasci!».

«C’è un’altra uscita?», incalzò di nuovo Eva, questa volta con maggior decisione.

«Sì, di sopra», confermò la donna.

Eva piegò il fascicoletto che avevano letto fino a pochi minuti prima e se lo infilò nella tasca posteriore dei jeans.

«Ci dobbiamo dividere!», ordinò a Fossati. «Se restiamo insieme non abbiamo speranze».

«Non se ne parla».

Un’ombra si mosse dietro la porta, sembrava che uno degli aggressori volesse prendere la bambina.

Eva si alzò, puntò la Glock e fece fuoco senza quasi prendere la mira. Non colpì il bersaglio ma ebbe l’effetto di farlo ritornare nel vano scala.

La bimba, in sella al triciclo, era ancora immobile.

«Non abbiamo molto tempo. Non discutere!».

Fossati fece per replicare ma la donna gli tappò la bocca con un bacio. Veloce, intenso e soprattutto convincente.

«Ascoltami bene». Eva gli mise la pistola in mano e il suo viso si fece serio. «Io li tengo occupati. Tu prendi la bambina e uscite dal piano di sopra! Hai capito bene?».

Un piano assolutamente folle: la scala che portava al piano superiore era dietro di loro; Ann Marie, invece, era dalla parte opposta della stanza. In mezzo c’erano gli aggressori.

«Io non ti lascio!», ribadì Fossati.

«Non c’è tempo per discutere. Io li tengo occupati e voi ve la svignate. Insieme non abbiamo scampo. Ci rivediamo domani a mezzogiorno alla Grand Place. Ricordi come arrivarci?».

Fossati annuì.

«Stai tranquillo. Io me la caver…».

Come un lampo, due degli aggressori piombarono nel soggiorno, protetti dal fuoco di copertura proveniente da dietro lo stipite.

Quello più basso si buttò sulla bambina e afferrò con decisione il piccolo braccio di Ann Marie.

Ma il cane, che fino ad allora si era limitato ad abbaiare, si lanciò sull’aggressore e con un balzo lo azzannò a un polpaccio. L’uomo cadde rovinosamente sul pavimento e cominciò a urlare, mentre le fauci del grosso San Bernardo – che non aveva mai fatto male neppure a una mosca – gli penetravano la carne. Da sdraiato, puntò la mitraglietta e fece fuoco in direzione del quadrupede.

Una scarica. Qualche guaito ma nessun risultato evidente: il cane non mollava la presa, al contrario sembrava serrare ancora di più le fauci.

L’uomo sparò ancora, ripetutamente.

Nel frattempo, da dietro al divano, una figura si mosse velocemente.

Dopo la seconda scarica di mitra, il cane allentò la presa mugolando. La mitraglietta l’aveva crivellato di colpi ma, nonostante il dolore, aveva continuato a perseverare nel tentativo di salvare la piccola Ann Marie. Alla fine, vinto dal dolore, lentamente lasciò la gamba maciullata e grondante di sangue.

L’uomo si trascinò sul pavimento ma non fece in tempo a rendersi conto di ciò che era accaduto che un colpo di proiettile alla spalla lo fece rotolare nuovamente a terra.

Alzò lo sguardo per nulla lucido e si trovò una MP7 puntata contro. Doveva essere quella del suo collega ferito al collo, che era caduta vicino al nascondiglio dei tre, dietro al divano. La ragazza doveva averla raccolta pochi istanti prima.

Eva non sparò, si limitò a osservarlo negli occhi per una frazione di secondo.

Poi rivolse lo sguardo alla bambina, che era ancora sul triciclo. Fece uno scatto indietro come un felino e con un calcio ben accompagnato fece scorrere il piccolo mezzo di trasporto sul parquet del soggiorno. In un istante, la bimba arrivò, senza quasi accorgersene, nella zona del divano.

Fossati fu lesto ad alzarsi e prenderla al volo. «Da che parte?».

La donna si mosse in direzione della scala di legno. Fossati, con la bimba tra le braccia, la seguì.

Si girò solo una volta, per cercare di incontrare, un’ultima volta, lo sguardo di Eva. “Domani a mezzogiorno alla Grand Place”. Avrebbe voluto dire qualcosa, chiedere un’ultima conferma, ma non c’era più tempo.

Eva si era riparata in cucina. Da lì poteva tenere l’ingresso sotto controllo mentre loro fuggivano verso il piano di sopra. Non incontrò gli occhi di Fossati.

 

Il Robinson R66 era un velivolo compatto che non aveva necessità di grandi spazi per atterrare. Ciò nonostante, in quella zona piena di alberi e villette a schiera, non riuscì a individuare un luogo adatto.

Eppure, accesa la potente luce sulla pancia del velivolo, il pilota notò che l’edificio alla destra di quello dei Defour aveva una parte del tetto stranamente in piano.

Prima di dirigersi su quel punto, dopo avere avuto un’altra comunicazione via radio, eseguì gli ordini alla lettera.

«Al secondo piano! Qui due uomini a terra. C’è bisogno di rinforzi. Scappano al piano di sopra. Noi siamo bloccati».

I portelloni vennero fatti scorrere sui cardini e una vampata di aria fredda e pioggia investì i soldati. Due corde annodate appese ai supporti dell’R66 vennero buttate di sotto.

L’elicottero si abbassò sensibilmente e, con i potenti rotori, arrivò quasi a sfiorare le punte degli alberi di Avenue Molière.

I primi due paramilitari si calarono dall’alto in direzione delle finestre del piano superiore. Si lasciarono cadere nel vuoto e poi, dopo aver ondeggiato nell’aria, con gli anfibi sfondarono i vetri dell’edificio. Con una capriola atterrarono direttamente all’interno di una camera da letto.

Il terzo militare e l’ufficiale li seguirono pochi istanti dopo. Compirono la stessa manovra, si calarono dall’elicottero sospeso sopra il cielo di Bruxelles e si infilarono nell’apertura sulla facciata del palazzo.

Appena l’ultimo dei soldati fu entrato, il pilota azionò la cloche e fece alzare il velivolo. Individuò lo spazio sul tetto del palazzo e cominciò la manovra di atterraggio.

 

Jean François Defour sapeva che il lavoro che stava facendo con Zorzi era molto pericoloso. Poco prima di morire, con l’avallo della moglie, aveva quindi fatto in modo che la sua famiglia potesse godere di sistemi di protezione supplementari.

Aveva messo mano al portafogli e, con un esborso di ottantamila euro, aveva fatto costruire nel suo studio una safe room.

Si trattava di una stanza con muri in cemento armato da quaranta centimetri, isolata e protetta dal resto della casa, dove ci si poteva rifugiare in caso di pericolo. Era dotata di una porta blindata, di un telefono per comunicare con l’esterno, di una scorta di cibo e di acqua, medicine e di un sistema di ricambio dell’aria. Sophie appoggiò il palmo della mano su un pannello di vetro e la porta blindata si aprì.

«Dentro!», ingiunse la donna in un impeto di autorevolezza.

Fossati, con la piccola Ann Marie in braccio, sembrava titubante.

«L’altra uscita è di qua», lo rassicurò la moglie di Defour.

I tre entrarono e si richiusero la porta alla spalle proprio mentre nella camera accanto si udivano vetri in frantumi e rumore di passi.

La stanza era piccola, non più di tre metri per tre. Era rivestita di mattoni grigi e illuminata da una fila di neon. Sulla destra, accanto alla porta, c’era una consolle con quattro monitor a colori che riprendevano altrettanti angoli della casa. C’era un letto a castello, un tavolo e quattro sedie.

«L’ha fatta costruire mio marito due mesi fa», spiegò Sophie con il fiatone, appoggiata con le spalle alla porta blindata. «Ha anche allarmi per eventuali gas tossici, sistemi per consentire che l’aria rimanga respirabile e una dotazione di bombole di ossigeno. Ma c’è una cosa più importante!». La donna indicò un vano con due porte scorrevoli. «Per evitare di restare chiusi dentro, mio marito ha fatto costruire un ascensore che porta direttamente in garage».

Sophie tirò il fiato e si avvicinò a Fossati. Ann Marie allungò le braccia verso la madre, che la afferrò e la strinse forte a sé. La bimba singhiozzava ancora.

«Cosa fa?», domandò Fossati vedendo la donna che si muoveva in direzione della consolle.

«Chiamo la polizia!», rispose lei secca.

Fossati le toccò il braccio per impedirle di digitare il numero. «Mi ascolti. Quegli uomini sono già in casa e non ci metteranno molto a sfondare la porta! Piuttosto… in garage ha un’automobile?».

La donna annuì.

«Allora andiamocene e basta», suggerì lui scuotendo la testa. Sapeva che non avevano altra scelta e, soprattutto, era consapevole che mentre loro avevano una possibilità, per Eva non ce n’erano molte.

 

 

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