CAPITOLO 22

 

 

 

 

 

 

 

 

Ore 13:15

 

Dopo aver dispensato sorrisi e strette di mano a tutte le personalità presenti al funerale, Carlo Maria Rosati salì al Quirinale.

Percorse a due a due i gradini del maestoso scalone d’onore e si fermò solo quando fu sul tappeto rosso del pianerottolo.

Estrasse il cellulare e si assicurò che non ci fossero novità. Prima di dirigersi verso il piano nobile, lanciò uno sguardo fugace fuori da una porta finestra coperta per metà da un pesante tendaggio porpora. Attraverso il vetro si riusciva a vedere una porzione dei quattro ettari dei giardini del palazzo. Ma non furono né la cascata di diciotto metri, né il famoso organo d’acqua ad attirare la sua attenzione. In fondo, lungo una strada pedonale lastricata, vide un piccolo ombrello nero. Usciva da una porta secondaria, accompagnato da una delegazione di quattro persone.

Anche da quella distanza riconobbe la donna davanti al gruppo.

Perché era lì?

«Sapevi che la Capraro sarebbe venuta al Quirinale?», chiese al segretario personale che aveva atteso un passo dietro a lui, appoggiato, con il fiatone, all’imponente balaustra di marmo bianco.

«Veramente no!», si giustificò il giovane.

Rosati osservò la scena sotto di lui ancora per qualche secondo. Nuvole nerissime si stavano addensando sul colle e non solo in senso figurato.

«Più tardi chiamala!», ingiunse mentre ricominciava la salita. «Vedi se ti dice qualcosa».

Il giovane, che teneva in mano l’ombrello chiuso e una ventiquattrore di pelle, estrasse un tablet da sette pollici e prese un appunto con una penna capacitiva.

Mary Capraro era la coordinatrice dei Circoli. Come Rosati, era membro di Alleanza democratica da un trentennio e in passato erano stati anche intimi. Poteva aspettarsi delle mosse sporche?

In cima alla scala, a fianco dell’ingresso al salone dei corazzieri, c’erano due commessi: abito scuro, papillon, alamari d’argento e nastro tricolore al braccio.

«Ministro!».

Rosati salutò con lo sguardo e proseguì diritto lungo lo splendido corridoio di marmo rosato che nei cinque secoli di storia del palazzo era stato calpestato da papi, re e imperatori.

Gregorio Pulvirenti era il tredicesimo presidente della Repubblica a occupare le stanze di quell’edificio. Era un politico navigato che frequentava i palazzi che contano da mezzo secolo. Nella sua carriera aveva sempre avuto la capacità di mettere d’accordo tutti.

Tra i politici che si erano alternati negli anni a Roma, Pulvirenti poteva essere considerato una mosca bianca: mai uno scandalo che lo avesse riguardato, mai un’amante. Era spostato da sessant’anni e da sessant’anni condivideva con la moglie i successi della vita.

Lo aspettava un compito difficile, ma gli amici andavano aiutati.

Rosati si accomodò sul divano settecentesco della Sala di Druso, l’anticamera allo studio del presidente della Repubblica.

Era un locale ampio, con prezioso mobilio dai bordi dorati, una carta da parati tra il grigio e il beige, un grande arazzo e due splendidi quadri raffiguranti figure religiose. Il pezzo più pregiato stava alla sua sinistra, accanto alla porta che avrebbe varcato entro pochi minuti: era una commode in lacca nera realizzata nel 1750 da un famoso ebanista parigino.

Mentre il ministro si strofinava il mento, osservava distrattamente il busto di marmo di Druso Maggiore, figliastro dell’imperatore Ottaviano, che dava il nome alla stanza.

Cosa ci faceva la Capraro al Quirinale?

Il ragazzino si era già mosso e lo aveva fatto nel modo più prevedibile?

Poco male. Mary Capraro non era una stupida, avrebbe saputo con chi schierarsi. Più tardi ci avrebbe pensato. Non doveva mai dimenticarlo: lui era Carlo Maria Rosati. Non poteva certo farsi intimorire da un gruppo di scalcagnati dilettanti della politica. I Circoli non dovevano e non potevano essere un problema.

Era il suo momento.

Prima di diventare ministro dell’Agricoltura non aveva mai avuto il pollice verde. Prima di fare il ministro delle Politiche comunitarie non aveva mai creduto nell’Europa unita. Ironia della sorte, se gli fosse riuscito quello che aveva in mente, sarebbe stato anche a capo del governo di turno alla presidenza dell’Unione Europea.

Adesso doveva solo fare ciò in cui eccelleva. Doveva convincere Pulvirenti che la persona giusta per guidare il Paese e l’Europa era lui. La sua specialità, negli anni, era stata proprio quella di convincere gli altri delle sue capacità e di dire loro quello che volevano sentirsi dire.

Carlo Maria Rosati sorrise. Pulvirenti era un uomo di Stato. Lui sapeva cosa voleva sentirsi dire, e l’avrebbe detto…

Israele ha il diritto di difendersi. Un quotidiano era aperto sul tavolino di fronte a lui: riportava una frase pronunciata da Zorzi il giorno prima di morire. Non era una novità: Zorzi, contro ogni suo consiglio, continuava a ripeterlo. Invece di tenersi equidistante tra Tel Aviv e la Lega araba faceva pendere l’ago della bilancia sempre dalla parte degli ebrei. “Forse era ebreo anche lui?”, si domandò.

Guardò altrove. Accanto a uno splendido vaso di porcellana, dietro la tenda dello stesso colore della carta da parati, si intravedeva, tra le nuvole basse, la sagoma inconfondibile del monumento di marmo bianco del Vittoriano. Mentre cercava di mettere a fuoco piazza Venezia, la porta si aprì.

«Ministro, il presidente la attende!», annunciò uno scheletro con la faccia tutta ossa e un sorriso vuoto.

Rosati entrò. Era già stato più volte nello studio del presidente ed ebbe una rassicurante impressione: tutto era rimasto uguale. A Roma le cose non cambiavano mai. Meglio così.

«Buongiorno Gregorio», esclamò tendendo la mano a Pulvirenti.

Il presidente gli sorrise. Poi si rivolse al commesso dai guanti bianchi e indicò di chiudere la porta. «Allora, come andiamo?»

«Tutto considerato, direi bene. C’erano tutti al funerale!», rispose Rosati.

Pulvirenti si incupì. «Questo è un triste giorno!». Girò attorno allo scrittoio settecentesco e fece cenno a Rosati di accomodarsi su una delle due poltrone.

«Purtroppo dobbiamo guardare avanti!». Rosati annuì mentre lo diceva, poi si sedette e lasciò che lo sguardo si perdesse sugli intagli dorati della scrivania. «So che non è il momento migliore, ma crediamo di avere sviluppi nelle indagini sull’attentato».

Il presidente cambiò espressione. Ecco cosa voleva sentirsi dire.

Se avesse potuto, Rosati avrebbe sorriso. Appoggiò una cartellina sulla scrivania e la fece scorrere per avvicinarla al presidente. Per evitare di mettergli fretta, finse di guardare verso la consolle d’angolo sulla quale era appoggiato un raro orologio dell’inizio del Settecento. Bel pezzo, a casa sua non avrebbe affatto stonato.

Pulvirenti accese la lampada da tavolo e cominciò a sfogliare il contenuto del fascicolo. Osservò con attenzione le fotografie e lesse tutti i documenti che erano stati preparati per lui da Cesare Baldacci. Il direttore dell’AISE in persona, pochi minuti prima, aveva unito in quel fascicolo tutte le informazioni già fornitegli da La Forte e Fossati.

«Bene…», mormorò pochi istanti dopo togliendosi gli occhiali. «Quindi, forse, abbiamo un colpevole. Un pazzo? Un visionario? Sappiamo qualcosa del movente?»

«Per ora solo ipotesi. Nel suo appartamento hanno trovato elementi che farebbero pensare a un mitomane. Ma l’importante è che abbiamo avuto questa grande svolta nelle indagini. Almeno abbiamo un colpevole». Rosati inarcò le labbra in un mezzo sorriso, senza mostrare i denti. «I miei uomini hanno lavorato senza sosta per quattro giorni. Crediamo che queste notizie vadano rese pubbliche oggi stesso».

«Sarebbe un bel segnale che lo Stato c’è», convenne Pulvirenti.

«A tal proposito ho indetto una conferenza stampa per il primo pomeriggio».

Pulvirenti socchiuse gli occhi. «Bene. Un bel colpo. Ti sarà utile nel tuo partito, Carlo Maria».

Tono molto colloquiale. Ottimo segno.

Dopo una breve pausa Pulvirenti proseguì: «Ce la farai? Tra poco comincerò le consultazioni».

Rosati non rispose, si limitò a uno sguardo a metà tra la sorpresa e il rammarico di chi si trova in una situazione scomoda, suo malgrado. Ovviamente era un’espressione del tutto preparata.

«Il ragazzino si è già mosso, lo sai no?», continuò l’inquilino del Colle.

«Ognuno gioca le carte che ha a disposizione!», chiarì l’altro allargando le braccia.

Il presidente si alzò in piedi e tese la mano per salutare Rosati. «Ti faccio i miei auguri allora. E gioca bene le tue, di carte».

 

 

 

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